Si avvicina l’anniversario dei giorni che sconvolsero l’Europa e con essa il mondo intero, eppure tranne rare eccezioni la discussione attorno all’autunno del 1989 e su ciò che ha significato non sembra finora andare oltre i sentieri scontati delle rievocazioni giornalistiche (“la Germania delle Trabant, i cantieri di Danzica…”).

Rare eccezioni come il film su padre Popieluszko, presentato alla festa del cinema di Roma o l’incontro che domani il Centro culturale capitolino propone con Giovanna Parravicini, autrice di “Liberi”, splendido libro su esemplari figure di testimoni nella Russia sovietica.

A ben guardare, invece, sarebbe molto utile fissare per bene nelle agende degli europei del 2009 la data del 9 novembre di venti anni fa e il luogo, la città di Berlino. Certo, ci saranno i fuochi d’artificio attorno ai resti del Muro e parecchi discorsi di circostanza, giornali e tv riproporranno i momenti del “come eravamo” e per una mezza giornata celebreremo l’anno che molto più del 1968 (ricordate l’alluvione di nostalgie e malinconie che abbiamo dovuto sorbirci pochi mesi fa, nel quarantennale?) merita di stare in cima alla classifica “momenti di vera svolta”.

Poco prima e dopo l’abbattimento del muro (occorre confermare ai giovani di oggi che non è crollato a causa di un terremoto), i regimi comunisti cadevano come birilli: Polonia, Ungheria, repubbliche baltiche, Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania; mentre il Cremlino non riusciva a capacitarsi della valanga che sommergeva il Vecchio Mondo – che poi aveva solo settanta anni, meno di tanti governanti contemporanei che gli sono felicemente sopravvissuti. Ricordi felici, il sapore di una libertà conquistata, comunque l’inizio di una nuova epoca.

Però. Venti anni sono sufficienti per non accontentarsi dell’epica del passato. Oggi noi europei vogliamo più Europa o meno Europa? E vogliamo quella che ha invocato il Papa pochi giorni fa o quella di un Europarlamento impegnato a trasformare le pretese delle lobbies in diritti universali? Quella dei padri fondatori o quella degli uomini impagliati di Eliot? Quella dell’indifferentismo delle culture o quella consapevole di una propria missione nel panorama del mondo?

 

Un brillante osservatore di cose europee, che non è il caso di nominare, sostiene che solo tra una quindicina d’anni le classi politiche che dall’89 in avanti hanno perseguito un disegno sistematico di distruzione del tessuto culturale profondo dell’Europa si accorgeranno che se una società si sgretola a questo livello, perde anche ogni sicurezza e ogni forza economica a vantaggio di poteri criminali e corrotti (che a volte uccidono e a volte si accontentano di “uniformare”).

 

Potrebbe essere una buona chiave di lettura di tanti strani e oscuri eventi del continente allargato. Comunque, se la profezia è vera, vuol dire che dopo settanta anni di comunismo e trentacinque di cupio dissolvi, per l’Europa comincerà un’altra nuova era. A parte il fatto che potremmo anche cercare di affrettare i tempi, ecco un interessante spunto per qualche buona riflessione sull’89 e dintorni.