Il cristianesimo di Don Gnocchi

Sarà bello poter pregare il Beato Carlo Gnocchi, come tanti hanno già fatto per tutti questi anni, dal 1956 in poi, sapendolo santo

Sarà bello poter pregare il Beato Carlo Gnocchi, come tanti hanno già fatto per tutti questi anni, dal 1956 in poi, sapendolo santo. Consola sapere che la Chiesa, esperta in umanità, ha visto e approva, dopo che Dio concedendo il miracolo ha detto di sì. Interessante anche il tipo di miracolo. Un elettricista brianzolo che lavorava da volontario a un centro per disabili a Inverigo ed è rimasto folgorato, impossibile sopravvivere. Ma la folgore non lo ha ucciso avendo egli invocato istantaneamente don Gnocchi.

 

Prima dell’incarnazione di Dio in Gesù non si poteva vedere Dio senza morire, ora invece lo si può guardare, contemplare nel volto dei santi. Il cristianesimo di don Gnocchi è questo: una folgore che invece di uccidere dona la vita, dentro la vita, dentro il dolore, il marcio della condizione umana, dentro le cose normali. La folgore di una umanità diversa.

Per chi non abbia tempo di leggere le biografie a lui dedicate, ecco un riassunto. Carlo nasce nel 1902 a San Colombano al Lambro, nella Bassa. Il padre muore quando ha cinque anni di silicosi, era operaio marmista. La mamma si trasferisce a Milano, i suoi fratelli sono uccisi dalla tbc. A questo punto Carlo si fa brianzolo, a Montesiro incontra un sacerdote che lo affascina, va in seminario, è prete a 23 anni. Quindi l’oratorio, l’educazione dei ragazzi. Infine è alpino.

Se i suoi studenti, amici e fratelli vanno in guerra lui è lì con loro, non obietta, parte, odiando la guerra, ma lì. Va nei Balcani, poi in Russia. Tra i soldati, uno di loro, però testimone di una Presenza straordinaria. La purezza della castità, contento di essere prete, senza astrarsi, senza fuggire dalla sporcizia e dal sangue. Anche in battaglia. La famosa battaglia di Nikolaevka.

Nel suo libro “Cristo con gli alpini” scrisse: «In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l’uomo. L’uomo nudo; completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balìa degli istinti più elementari emersi dalle profondità dell’essere». Amare questi uomini come Cristo, amico senza giudicarli, senza escluderli perché preda degli “istinti più elementari”, nessuno scandalo, perché l’uomo nel dolore e nella malattia è salvato.

Ritorna. Ha ricevuto le confidenze dei morti, le lettere. Gira per l’Italia a portare alle famiglie notizie tragiche di persone che ha visto morire. Si prende cura degli orfani. Poi si dà da fare per i bambini mutilati dalla guerra e ancora falcidiati dalle bombe abbandonate. Mette su istituti (la “Pro Juventute”), si fa tutto a tutti, specie con i bambini perché consegnino le loro sofferenze a Gesù.

Prende sul serio i bambini, non li considera bambole di pezza parlanti. Sa che anch’essi cercano il senso della vita, e persino il loro dolore assurdo trova senso sul costato del Crocifisso (e Risorto). Le opere si moltiplicano. Il riconoscimento dei politici non manca; ancor oggi Giulio Andreotti, che ebbe da De Gasperi l’incarico di sostenerlo nelle varie iniziative, dice di lui: «Non gli si dirà mai grazie abbastanza». Don Carlo si consuma. Ha il volto bianco come la neve.

A proposito di neve. A me resta impressa questa frase: «Com’è bello giocare con la neve quando è pulita e bianca. Anche Gesù gioca volentieri con le anime dei bimbi quando sono bianche e pulite; ma se diventano sporche a Gesù non piacciono più…». Cosa colpisce? Egli sa che esiste la libertà, gli uomini possono dire sì o no, anche quando sono bambini. La drammaticità dell’esistenza umana inizia presto. E per questo c’è bisogno di adulti che rischino tutto per i loro ragazzi, i quali si affidino a loro volta al maestro, dentro un’affezione che corrisponde al bisogno del cuore.

 

Egli, magro, consumato, felice, morì a 54 anni dicendo: «Grazie di tutto». Lo diceva a Dio, lo diceva agli amici, ai bambini, agli alpini, a noi. Nelle varie polemiche che si sono susseguite in questi anni (ma durano da secoli) a proposito della risposta cristiana al mistero del dolore innocente, la risposta di don Gnocchi all’enigma è bianca come la neve e rossa come il sangue di Cristo. E si scusi l’immagine un po’ ardita, ma in fondo Gnocchi era ardito e ardente. Egli sapeva che quel dolore dei bambini, perché non fosse buttato via, andava versato nella mano del Signore, ma nel far questo ha fatto di tutto per lenirlo, per combatterlo. Se uno vuol bene dice: “donna non piangere!”, come Gesù alla vedova di Naim.

 

Negli ospedali di don Gnocchi, nelle sue case, non si lesinavano denari per acquistare le migliori tecnologie per estirpare il dolore, per consentire di camminare meglio ai mutilati. È stato il primo a donare le sue cornee per consentire a due ciechi di vedere, anticipando la legge con il suo gesto profetico. Altro che oscurantismo cattolico o dolorismo sadico. Tutto per Cristo e per gli uomini. Perché i bambini si immedesimino in Lui, e anche gli adulti siano pienamente uomini come Lui. Disse: «Cristo vero Dio e vero uomo, è l’esemplare e la forma perfetta cui deve mirare e tendere ogni uomo che voglia possedere una personalità veramente umana».

 

Aveva visto l’orrore in guerra, l’istinto belluino, quello di vivere anteposto a tutto, nel gelo russo. Eppure don Carlo anche lì riuscì a essere – e la sua testimonianza vale tuttora – “seminatore di speranza”, secondo la definizione per lui coniata da Giovanni Paolo II. Il destino è buono. L’uomo è capace di male, ma è più forte la grazia.

 

Diceva: «L’ultima parola spetta sempre al bene». E si rivolgeva sempre, nel buio e nella melma, alla «Madre tenerissima, mediatrice di Grazia». Per questo è bello che sia stato fatto Beato, e la sua faccia lunga e lieta appaia sul grande stendardo domenica in Piazza Duomo a Milano, sotto la Madonnina d’oro.

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