Friedrich Nietzsche ha accusato il cristianesimo di aver avvelenato l’eros. Ma sembra che oggi quest’ultimo abbia un nemico più agguerrito e pericoloso: il cioccolato. Lo rivelava l’altro giorno un titolo a piena pagina su uno di quei giornali gratuiti che molte migliaia di persone leggono in metropolitana.
Presentando i risultati di una “ricerca” socio-scientifica, titolava: «Una donna su quattro preferisce il cioccolato al sesso». Non conosco l’attendibilità della ricerca e non voglio assolutamente buttare il discorso su un tono pettegolo o pruriginoso. Perché è una cosa seria.
Della banalizzazione dell’eros, della mercificazione consumistica dell’intimità si è scritto molto (e sarebbe da recuperare, in proposito, la sofferta riflessione di Pasolini). Ma quel titolo raggiunge un livello di decadimento che ha dell’incredibile. È lo stesso approccio dell’inchiesta a lasciare stupefatti. Immaginatevi la domanda: «Scusi, lei preferisce una notte di sesso o una barretta di cioccolato?».
Di solito, quando si chiede che cosa una persona preferisca, le alternative all’interno delle quali fare la scelta riguardano due oggetti che si trovano sullo stesso piano, che appartengono alla medesima categoria. Che so? Preferisci Vasco o la Pausini, andare al mare o in montagna, il riso o la pastasciutta? Nell’inchiesta in questione si situano nella stessa categoria di fenomeni il cioccolato e il sesso.
Ciò significa che l’uno e l’altro sono percepiti e proposti come semplici occasioni per soddisfare una voglia. Entrambi sono dei puri oggetti che si acquistano, anche se non necessariamente in termini monetari, sul libero mercato delle opportunità che offre la vita. Entrambi si consumano in vista dell’esaudimento di quella voglia. Entrambi si dimenticano dopo l’uso.
Viene così completamente azzerata la specificità del rapporto umano; l’altra persona è come me (mentre non lo è il cioccolato), ma nello stesso tempo irriducibilmente altro da me (mentre il cioccolato lo assimilo). Non voglio qui insistere sul fatto che l’altro, nella concezione proposta da quella indagine, viene strumentalizzato, mercificato, distrutto.
Certo questa è una conseguenza terribile (e Pasolini l’ha gridata nel suo Salò). Ma altrettanto grave è la distruzione dell’io chiamato a scegliere nell’alternativa posta. È un io concepito come chiuso e impermeabile, falsamente autosufficiente. È una monade che non è in grado di guardare fuori di sé; una bilia che si scontra casualmente, e a volte piacevolmente, con altre bilie.
Un simile meccanismo può funzionare, può portare un minimo di soddisfazione se si tratta di una barretta di cioccolato. Ma quando cerco un altro, anche nell’ambito dell’eros, è proprio un altro che cerco. E lo cerco perché mi scopro definito da una incompiutezza.
Tutta la storia della civiltà ha esaltato questa ricerca, chiamandola amore. Di cui l’eros è solo una parte. Una parte che può rimanere fedele a se stessa solo se si apre, come ha spiegato Benedetto XVI nella Deus caritas est, all’ultima implicazione della sua stessa dinamica, alla gratuità dell’agape. Quella gratuità che è la definizione stessa dell’Essere. Allora è chiaro che la Chiesa, impedendo la separazione tra eros e agape, non avvelena il primo. Lo salva.