Anno dopo anno, legislatura dopo legislatura, la famiglia aleggia sulle politiche pubbliche del nostro Paese. Come il convitato di pietra del “Don Giovanni”, la sua assenza incombe minacciosa. Tutti ne parlano, ma quanto a risultati mala tempora currunt.

Guardando dal basso verso l’alto, il panorama è desolante. Nei Comuni si interviene solo e sempre sulle famiglie border line: povere, escluse, a rischio, deboli. Solo rarissimi casi isolati (Lecco o, più recentemente, Parma) provano a far virare il sistema di politiche sociali per renderlo “a misura di famiglia” (di tutte le famiglie, senza aggettivi).

Risalendo la china delle istituzioni, quasi tutte le Regioni si appuntano sul petto la coccarda di una legge, leggina o provvedimento pro family. Ma, fatta salva l’esperienza avanguardista della Lombardia, il resto assomiglia più a un lifting che ad una vera e propria cura per far guarire il pubblico dal virus anti famigliare.

Ma quando si arriva al vertice della piramide lo spettacolo diventa desolante. La scena è quella di sempre: il moloch previdenziale che si mangia gran parte della torta, il sistema sanitario a prendersi il resto. Poi, le briciole. E le più piccole, quasi invisibili ad occhi distratti, sono proprio quelle per le politiche famigliari.

Da cinquanta e più anni la storia si ripete. Passano i governi, le maggioranze bianche, rosa, verdi e azzurre, i Libri verdi e quelli bianchi, ma il fatto che la famiglia generi “un valore sociale aggiunto”, per effetto “dell’assunzione di responsabilità pubblica che consegue al matrimonio e della stabilità degli affetti” (come recita il Libro bianco voluto dal ministro Sacconi) non riesce mai ad avere rilevanti conseguenze in termini di politiche pubbliche. Si arriva a sostenere anche che “nel riconoscere e promuovere la famiglia la società gioca la sua stessa sopravvivenza”, o che la famiglia è “il nucleo primario di qualunque welfare” (ancora dal Libro bianco licenziato nel maggio scorso), ma finita l’esercitazione retorica tutto finisce nel dimenticatoio. C’è sempre un’emergenza più rilevante, una crisi più drammatica, un tema più scottante. E nessuna maggioranza, mono o bipartisan, che si prenda la briga di metter mano una volta per tutte al nostro welfare, provando a scegliere una linea di investimento sociale invece di bordeggiare lungo le coste eterne e rassicuranti della protezione sociale.

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Nel documentato articolo di Marco Tedesco c’è una cifra che svetta tra le altre: quella degli euro che ci mancano per avere una politica amica delle famiglie in linea con quel che accade nei Paesi più avanzati europei. Servono 15 miliardi di euro, necessari per aumentare di un punto la percentuale di Pil dedicata a questo tipo di intervento.

Facciamo una proposta, per provare a mettere la prima pietra di questo tesoretto decisivo per rilanciare il nostro stanco, vecchio welfare: utilizziamo i soldi che arriveranno dal tanto vituperato scudo fiscale per finanziare l’introduzione del quoziente famigliare nel nostro sistema fiscale. Le stime dell’Eurispes indicano in circa 3 miliardi di euro i mancati introiti da parte dello Stato, nel caso di introduzione di un sistema identico a quello utilizzato in Francia. Mentre lo scudo fiscale dovrebbe fruttare alle casse dello Stato dai 3 ai 5 miliardi di euro.

Sarebbe un segnale potente, una rivoluzione culturale, al tempo stesso etica (perché giusta ed equa) ed estetica (perché bella e affascinante). È una modesta proposta, che avanziamo innanzitutto al ministro Tremonti ma che potrebbe esser fatta propria dai tanti parlamentari di buona volontà che lavorano con passione nell’Intergruppo per la Sussidiarietà. Serve un atto di coraggio: l’occasione sembra essere quella giusta per entrare in una nuova era.