La Consulta ha ritenuto il cosiddetto lodo Alfano incostituzionale, perché promulgato attraverso una legge ordinaria e non costituzionale e per violazione dell’articolo 3 della Costituzione, riguardante il principio di uguaglianza.
Non intendo soffermarmi più di tanto sulle interpretazioni giuridiche, sia perché non sono note le motivazioni della decisione, sia e soprattutto perché il vero problema di questa decisione è un altro: si rialzano i toni dello scontro tra politica e magistratura, che hanno caratterizzato negativamente gli assetti democratici del nostro Paese nell’ultimo ventennio.
Difficile non cedere alla tentazione di una lettura politica della sentenza: ieri il prof. Zanon, docente di diritto costituzionale, dalle pagine del Corriere della Sera aveva spiegato molto chiaramente, con un ragionamento lineare che si condivide, che la Corte costituzionale se avesse “bocciato” come incostituzionale il lodo Alfano avrebbe smentito se stessa e la precedente decisione del 2004, dalla quale per i rilievi mossi al lodo Schifani emergeva chiaramente la sua natura di strumento di sospensione processuale per la durata del mandato delle alte cariche dello Stato e non di vera e propria immunità, con la conseguenza che, rimediato ai rilievi di incostituzionalità mossi, il nuovo lodo poteva essere frutto di legge ordinaria e non necessariamente costituzionale.
Non a caso il presidente Napolitano, preso atto delle modifiche apportate dal legislatore, aveva dato il proprio assenso alla promulgazione; probabilmente considerando altresì necessario iniziare un periodo costruttivo della politica, non alla mercé di possibili ulteriori scontri tra poteri, con effetti destabilizzanti.
Al di là dell’analisi sulle conseguenze del giorno dopo e di quelli a venire, si ripropone in modo imponente il problema dell’assenza in questo Paese di una forma di immunità che impedisca di ricadere periodicamente nell’incubo dell’ingovernabilità, allorché il presidente del Consiglio, un ministro o un parlamentare di questo o quest’altro partito siano oggetto di indagini o di processi penali.
Il nostro Paese in questo complicatissimo momento storico, di crisi generalizzata, di tutto ha bisogno, meno che di instabilità e ingovernabilità. Diceva bene ieri ancora il prof. Zanon, come «nel nostro contesto costituzionale che non conosce più l’immunità parlamentare e in cui non è raro che iniziative giudiziarie possano essere utilizzate come armi contro avversari politici», sia necessario bilanciare il principio della soggezione di chiunque di fronte alla legge con l’esigenza altrettanto importante di garantire a chi ha avuto il consenso democratico di esercitare le proprie funzioni in piena legittimazione morale e politica, nell’interesse del Paese.
Ciò, purtroppo, si rivela nei fatti impraticabile senza un filtro tra il potere politico e quello giudiziario: è l’ennesima riprova che, prima di illudersi di iniziare la stagione delle grandi riforme, bisogna rimettere mano a un sistema di immunità il più adeguato possibile alle esigenze e alla storia del nostro Paese che, garantendo l’indipendenza della magistratura, garantisca altresì l’altrettanto indispensabile indipendenza della politica.
Nel frattempo, ci si appella al senso di responsabilità di tutti, affinché questa sentenza non crei ulteriori fatiche a un Paese già molto provato, anche se – bisogna dirlo con franchezza – la decisione di cui si discute non è certo di buon auspicio.