Oggi non è un giorno qualunque

Non era proprio un giorno qualunque, il due novembre. Ora i segni di questa diversità sembrano cancellati

Quand’ero piccolo, il due novembre non era mica un giorno qualunque. Benché non si andasse a scuola, ci si svegliava presto perché c’era da partecipare all’Ufficio dei morti. Uscivamo di casa che era ancora buio; l’umida nebbia padana cancellava le case e gli alberi già un poco spogli.

 

Anche la chiesa era spoglia, come fosse il venerdì santo. In mezzo alla navata, coperto da un drappo di velluto nero, c’era un enorme catafalco; simile a quello che si preparava per le bare dei funerali, ma molto più grosso, come se dovesse ospitare tutti i morti della terra. Poi cominciava la celebrazione.

C’erano molti canti in latino e io non capivo. Le melodie in principio erano tristi, dal tono profondo, oscuro, quello della morte. Man mano che la liturgia procedeva, mentre dalle finestre cominciava ad intravvedersi la luce dell’alba, quelle melodie si trasfiguravano in qualcosa di più sicuro, di più solare. E si arrivava ad un certo punto in cui si sentiva un canto di certezza e di trionfo: «Beati mortui». Non c’era bisogno di sapere il latino per capire. Si diceva chiaro che i morti possono essere beati.

La giornata passava poi come un normale giorno di vacanza. Ma l’impressione mattutina restava dentro. Accentuata dal fatto che in televisione non davano i soliti programmi, ma tanta musica classica. C’era ovviamente la visita al cimitero, con i racconti a noi piccoli delle vite di chi ci guardava dalle foto sulle lapidi.

Ma quella che si aspettava era la visita della sera della domenica successiva; quando ci sarebbe stato il luminerio. Tutti prendevamo dei lumini e ne ricoprivamo le tombe dei parenti; così il cimitero si trasformava in una spianata di luci deboli ma tenaci: «Beati mortui». Alla fine, come fosse un anticipo di quella beatitudine, le caldarroste.

Non era proprio un giorno qualunque, il due novembre. Ora i segni di questa diversità sembrano cancellati. Si deve lavorare comunque e non si ha il tempo di passare al cimitero a visitare chi ti portava in chiesa da piccolo. Se riesci ad andare a messa, trovi la stessa frettolosa incuria di tutti gli altri giorni.

Giornali, radio e televisione non si accorgono di niente e continuano a buttarti addosso, senza il minimo spazio di silenzio, le solite frastornanti banalità. Magari, addirittura, ti può capitare di leggere di un alto funzionario ungherese della Corte europea dei diritti dell’uomo che afferma: «I cimiteri esistono per ragioni di sanità pubblica, non per facilitare la risurrezione».

 

Forse l’esimio giudice Andras Sajó farebbe bene a rileggersi i Sepolcri di Foscolo. Scoprirebbe quanto di ben più profondo di una pura operazione igienica ci sia nella sepoltura, che accompagna la civiltà dalle origini, dal giorno in cui le «umane belve» iniziarono ad «esser pietose / di se stesse e d’altrui». Imparerebbe a non sfuggire la grande domanda che la morte e il giorno in cui essa è protagonista pongono.

 

La domanda che era ben chiara anche all’ateo Foscolo: «Gli occhi dell’uom cercan morendo / il Sole; e tutti l’ultimo sospiro / mandano i petti alla fuggente luce». La domanda che fin da piccolo mi hanno fatto guardare con rispetto.

 

Ma non ho raccontato ricordi d’infanzia per nostalgia. Il mondo va come va. Eppure, se siamo qui a parlare di queste cose, anche adesso, nel 2009, il due novembre non è un giorno qualunque.

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