Minareti e crocifissi pari (non) sono

Il referendum svizzero sui minareti segue di poche settimane la vicenda del crocifisso. Nel merito le due questioni non hanno in comune alcunché

Il referendum svizzero sui minareti segue di poche settimane la vicenda del crocifisso. Nel merito le due questioni non hanno in comune alcunché. Ma ambedue esprimono il disagio, l’imbarazzo, l’incapacità dell’ “uomo europeo colto” a trovare un nesso accettabile tra la fede e la politica, intesa nel senso della polis, della res publica.

 

Esponenti leghisti hanno un bel dire che “occorre ascoltare sempre il popolo”, contrapponendolo a una supposta élite di politici e intellettuali (e giornalisti ovviamente) come se da una parte risiedessero purezza dei sentimenti e innocenza delle scelte, e dall’altra malizia e infingardaggine.

Nella modernità del nostro amato e logoro continente (che pure, in un sussulto di autocoscienza il vecchio preambolo alla defunta “costituzione” definiva “spazio privilegiato della speranza umana”) popolo ed élite partecipano della stessa frattura tra fede e ragione, causa di quella citata tra fede e politica.

È possibile che alla luce della protesta popolare contro la deposizione del crocefisso l’Italia faccia almeno in parte eccezione, ma si tratterebbe appunto di una eccezione – la cui disamina non è il caso di affrontare qui. Negli Stati Uniti il problema è tuttora molto meno sentito: alla chiara e sana separazione tra Stato e Chiesa (qualunque Chiesa) fa da contrappeso l’inclusione altrettanto chiara e sana della fede e delle fedi nello spazio pubblico.

“Le vostre discussioni sono per me surreali”, raccontava un influente americano da poco residente in Italia, “nessuno da noi si sognerebbe di teorizzare la privatezza della fede, nessuno vive la fede come un imbarazzo, come un possibile disturbo per gli altri”. Piuttosto, aggiungeva, “i miei figli sono scioccati dal fatto che alla messa domenicale non vedono né giovani, né famiglie intere e mi chiedono perché, non vorrei che cominciassero anche loro a sentire la fede come un problema”.

Un altro aspetto messo in luce dal voto svizzero è la “territorialità” della fede. I sostenitori del referendum affermavano che “il popolo svizzero ha respinto l’occupazione del territorio” e i loro alleati italiani come l’ex ministro Castelli hanno proposto di inserire la croce nella bandiera italiana, in analogia con quella svizzera.

Marchiare la terra, la nazione, con caratteri sovrapolitici, con simboli che esprimono la tradizione autoctona, “la nostra civiltà”. Quella altrui è una “invasione”, una presa di possesso concreta e materiale, sulla quale si ergerebbero, appunto, i minareti, simboli di una “conquista”. Occorre dunque difendere confini, villaggi e vallate. Con le bandiere piantate e i campanili svettanti sulla nostra terra.

È una linea di pensiero che non appartiene solo alla Lega (che all’inizio puntava al dio Po e ai miti celtici, ma certo il crocefisso cristiano è molto più efficace), ma anche a settori della Destra militante, così come a certe aree cattoliche. L’universalismo cristiano, che ha avute sempre ben presenti le dimensioni della terra e delle culture umane senza mai (o quasi mai) idolatrarle, viene sostituito dall’Occidente cristiano.

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Infine un terzo aspetto, che è quello della cosiddetta “reciprocità”, secondo la formula ben nota: una moschea in Europa per una chiesa in Arabia. Ma reciprocità è un concetto molto più complesso (forse nel caso si dovrebbe parlare di simmetria) e usato con molta parsimonia persino dagli ecclesiastici impegnati nel dialogo con l’Islam.

 

La vera battaglia infatti è che il principio della libertà religiosa (di culto e di espressione pubblica) che l’Occidente riconosce e garantisce, si diffonda in tutto il mondo musulmano. Non può essere oggetto di scambio, “io la concedo ai tuoi se tu la concedi ai miei”, poiché si tratta del fondamento stesso del diritto umano. Se perdesse anche questa certezza, dell’Occidente rimarrebbe ben poca cosa.

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