La finanza deve servire alle imprese, non le imprese alla finanza. Ho sempre fatto riferimento a questa semplice regola di buon senso, più volte stravolta in questi ultimi anni. Dario Di Vico sul Corriere di domenica riferisce di mille imprese scalate negli ultimi dieci anni tramite operazioni di private equity, molte delle quali, la maggioranza, hanno bruciato ricchezza e posti di lavoro.
“Non visitare le imprese così non corri il rischio di innamorartene” sembra avere consigliato Enrico Cuccia a un giovane Romano Prodi. In questa frase sta tutta la negatività di chi usa dei propri talenti per fare soldi con i soldi, senza passare attraverso l’ideazione, la progettazione e la produzione di un bene o di un servizio.
L’imprenditore non è, né sarà mai, un finanziere: pur utilizzando della finanza, ne fa un mezzo per raggiungere i propri fini. Mi è capitato anche recentemente di essere a un tavolo di uomini di finanza: si trattava di una giuria che doveva decidere dell’attribuzione di un premio al miglior processo di successione generazionale. Economia reale, dunque.
Quanta boria, invece, e quanto snobismo nel giudicare le vicissitudini quotidiane di imprese che assicurano occupazione e reddito a centinaia di persone. Alla larga, ora e sempre, da chi non costruisce mai nulla per gli altri e, spesso, distrugge.
Per fortuna, nonostante la crisi, la vocazione manifatturiera del paese si consolida. Nel periodo gennaio-novembre di quest’anno le società di capitali hanno registrato un saldo attivo di 42.174 unità: per 76.133 nuove iscrizioni hanno cessato la propria attività 33.959 imprese. Al contrario, segnalando un’oggettiva difficoltà delle aziende piccolissime, le imprese individuali hanno totalizzato un saldo negativo di 22.619.
Poco meno dei due terzi dei sei milioni di aziende attive occupa spazi di mercato a elevato valore aggiunto, a conferma della metamorfosi ormai quasi compiuta da parte delle nostre piccole e medie imprese: conseguentemente il 43% di esse ritiene di poter avere nel corso del 2010 una competitività maggiore rispetto a quella dello scorso anno.
Questi dati, presentati in settimana dal presidente di Unioncamere Ferruccio Dardanello, riguardano l’intero territorio nazionale e tutti i comparti dell’economia a conferma che ormai la differenza vera non la fa più né il settore, né il territorio: ci sono settori in crescita con aziende che chiudono e viceversa, e lo stesso vale per le diverse zone del paese.
È soprattutto l’imprenditore con il suo carico di storia personale, di motivazioni e competenze, che determina, insieme ai suoi collaboratori, il maggior o minor successo dell’impresa. Ciò vale anche per i distretti dove, secondo i dati del Servizio studi e ricerche di Intesa San Paolo, il relativo miglioramento dei risultati economici delle imprese distrettuali investe tutte le specializzazioni e tutti i territori, non solo quelli anticiclici come l’alimentare o quelli più favoriti come il nord. Il vitivinicolo della Sicilia occidentale, ma anche il calzaturiero di Nocera Inferiore, il biomedicale di Mirandola, ma anche le piastrelle di Sassuolo.
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Infine, le famiglie. Dall’analisi di Banca d’Italia risulta che queste, avendo funzionato da vero ammortizzatore sociale, hanno assorbito i maggiori effetti della crisi e si sono impoverite, anche se in misura assai inferiore rispetto a quelle francesi, inglesi e statunitensi. Questo risultato scaturisce da un aumento delle attività reali (abitazioni, terreni e fabbricati) e da una maggiore diminuzione delle attività finanziarie (depositi, obbligazioni, azioni).
Se a questa notizia sovrapponiamo quella secondo la quale dal 2007 ad oggi l’Agenzia del territorio ha scoperto due milioni di case fantasma, cioè non dichiarate al catasto, possiamo ben dire che, nonostante tutto, il buon vecchio mattone non viene mai abbandonato.