L’ala sinistra del Partito Democratico è rimasta chiaramente scossa dalla decisione del presidente Obama di inviare altri 30.000 soldati in Afghanistan. Per loro si tratta di una decisione equivalente al controverso aumento di truppe in Iraq voluto da Bush nel 2007, cui il candidato Obama si era duramente opposto, affermando poi che non si sarebbe ripetuto. E ritengono, ancora una volta, che Obama si stia allontanando dalle promesse fatte in campagna elettorale. Eppure, almeno in questo caso, il presidente sta facendo proprio quanto promesso durante la sua campagna.

Nel discorso in cui ha annunciato l’invio del nuovo contingente di truppe, Obama ha ricordato ai suoi critici di aver ripetutamente collegato, nella campagna elettorale, la sua opposizione alla guerra in Iraq alla necessità di combattere fino in fondo la guerra in Afghanistan, da lui definita “una guerra necessaria”. Per questo, subito dopo la sua elezione, aveva mandato dei rinforzi e il 2 dicembre, dopo tre mesi di estese consultazioni, ha di nuovo fatto fronte alla sua promessa.

Le reazioni al discorso a West Point, in cui ha annunciato la sua decisione, hanno reso evidente che i Democratici di sinistra e i Repubblicani non appoggeranno la decisione del presidente e la sua strategia. Anche se, dopo l’attacco del settembre 2001, Obama ha dichiarato di rifiutarsi di credere che sia impossibile ricostruire l’unità tra gli americani, le reazioni al suo discorso fanno pensare il contrario.

Se il presidente avesse deciso di non inviare le truppe richieste dai suoi consiglieri militari, la reazione dei Repubblicani sarebbe stata violenta. Come mi ha detto un convinto sostenitore di Obama, gli attuali “tea parties”, come vengono chiamati gli incontri organizzati contro le politiche governative, sarebbero diventati veramente dei “tè delle cinque” in confronto a ciò che si sarebbe scatenato.

All’altro estremo, i Democratici di sinistra non si accontenteranno della promessa di Obama di iniziare il ritiro delle truppe a partire dal luglio 2011, mossa che i Repubblicani hanno accusato di essere solo politica e non coerente con gli obiettivi descritti dal presidente stesso nel suo discorso. Per i Democratici contrari alla guerra, la decisione di Obama equivale alla strategia di “nation building” di Bush, anche se Obama lo ha negato esplicitamente nel suo discorso.

Il vero interlocutore cui si è rivolto Obama con il suo discorso è rappresentato da quegli americani che non aderiscono a una precisa ideologia e dai Democratici di centro-sinistra, che hanno fiducia in Obama come persona e che ancora vogliono almeno concedergli il beneficio del dubbio. Una cosa è chiara: da ora in poi questa è la guerra di Obama e questa decisione sarà il contrassegno della sua presidenza.

È interessante notare che ancora una volta, come spesso durante la campagna elettorale, la questione al centro è la vera essenza di Obama, il suo modo di decidere e giudicare. Quanto ci si può fidare di lui e quanto è ragionevole fidarsi di uno che sembra così diverso dai politici americani precedenti? Ma è veramente così diverso? Non è forse solo un politico molto abile alla ricerca del potere?

 

Ho sentito sollevare tutte queste domande parlando con amici o nei media. Poco prima del suo discorso, un giornalista televisivo ed “esperto” di politica ha detto: “Quello che voglio sapere è se nelle sue decisioni vi è anche il cuore o se sono solo una questione di testa.” Ancora una volta la domanda posta è: cosa c’è veramente nel cuore di Obama?

 

Questa è una buona domanda, soprattutto per quelli la cui fede ci permette di riconoscere l’ambiguità che c’è in ogni decisione umana. Come ha scritto G.K. Chesterton, l’uomo aperto al Mistero “ha tenuto sempre di più alla verità che alla coerenza. Di fronte a due verità che sembrano contraddirsi, egli prenderà entrambe le verità e con esse la contraddizione.” (Orthodoxy).