Le riforme che vogliamo

Il nostro Paese ha bisogno di una nuova e più moderna formula istituzionale che sia in grado di restituire alla politica il primato sulle diverse istituzioni

Nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, alla fine il viandante domanda: “Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”. A quel punto, il venditore, messo da parte l’entusiasmo iniziale, risponde con un disilluso: “Speriamo”.

Lo stesso disilluso “speriamo” si potrebbe porre a commento di una certa piega assunta dal dibattito sulle riforme negli ultimi giorni, che appare inquinato da un fronte che sembra contrario alla possibilità stessa di riforme condivise.

Si tratta del fronte che tende a chiamare subito “inciucio” quella capacità di compromesso che appartiene alla nostra più genuina tradizione costituente, si tratta del fronte che non accetta di riflettere sul fatto che a una visione particolare si può sostituire una visione generale, mirata al bene comune; si tratta del fronte che non considera che una riforma condivisa potrebbe porre fine allo scontro istituzionale e civile in atto nel nostro Paese e portarlo nello stesso tempo alla modernizzazione istituzionale.

Non è certo da questo fronte che può nascere una qualche speranza. C’è invece bisogno di un maggiore spessore politico e istituzionale, che sappia considerare, come ha fatto Tremonti in una recente intervista al Corriere della Sera (20/12/09), che il particolare può essere contenuto nel generale e che “un impegno costituente comune avrebbe un effetto naturale di pacificazione”.

È vero che in Italia c’è il rischio di una doppia crisi, esterna e in­terna. Quella di origine esterna ha avuto in Italia un impatto relativamente minore, perché il sistema, grazie proprio alla sua tradizione, ha tenuto meglio che altrove. Quella interna deriva da un sistema politico che “da un lato è vecchio e poco effi­ciente, dall’altro tende ad autodistruggersi”.

Sono quanto mai apprezzabili le aperture che su questo dialogo costituente sono venute da personalità come D’Alema. La riforma a maggioranza, così come l’inchiodarsi su questioni solo di parte non risponde ai problemi, anzi li amplifica, radicalizza lo scontro, non rompe quei fronti politici che come parassiti si nutrono della disgregazione, anzi li legittima.

L’antidoto al conflitto è sempre stato ed è una visione generale: Ruini, presidente dell’assemblea costituente, nella storica seduta del 22 dicembre 1947 richiamava al fatto che “l’esigenza dell’opera collettiva, della collaborazione di tutti, in democrazia è l’inevitabile, ed è la forza stessa della democrazia” e che “la Costituzione, come ogni opera collettiva, non può che essere una transazione, come è tutta la storia”.

In questo scenario l’ipotesi di una convenzione aperta al pluralismo (già proposta nel Rapporto Sussidiarietà e riforme istituzionali, Fondazione per la sussidiarietà, Mondadori 2007) potrebbe essere il luogo dove considerare i nodi irrisolti del nostro assetto istituzionale; può essere il luogo dove, in tutt’altro clima rispetto a quello degli ultimi mesi, viene anche considerata e risolta la questione dell’immunità, con una soluzione ispirata al modello del Parlamento europeo.

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Il nostro Paese ha, infatti, bisogno di una nuova e più moderna formula istituzionale che sia in grado di restituire alla politica il primato sulle diverse istituzioni parallele che si muovono fuori del sistema costituzionale formale e sui poteri forti del mondo economico globalizzato, e che nello stesso tempo restituisca alla società civile e al pluralismo istituzionale quell’autonomia che per lungo tempo è rimasta soffocata dentro uno statalismo solo ideologico.

 

L’Italia di oggi, da più punti di vista, si sta avvicinando a questa seconda formula: manca però una riforma costituzionale che razionalizzi la forma di governo. Da questo punto di vista occorre tornare su quelle pagine in fondo lasciate aperte dallo stesso Costituente, da un lato superando il bicameralismo paritario e dall’altro rafforzando il ruolo del Governo.

 

Il bicameralismo paritario italiano costituisce oggi una vera e propria rarità costituzionale (e proprio non si capisce come qualcuno possa ancora difenderlo) ed è evidentemente fonte di lentezza e di scarsa efficienza dell’azione di governo, senz’altro anche per l’eccessivo numero di parlamentari (circa mille) che devono votare un testo esattamente uguale con il rischio di estenuanti navette tra una Camera e l’altra.

 

Una volta ridotto il numero dei parlamentari, introdotto un senato federale e rafforzato il potere del Governo sono stati toccati nodi critici del sistema attuale e si è rispettato il nucleo essenziale di quel patrimonio storico su cui, fin dall’origine, si è innestata la radice sana del nostro modello costituzionale. Se a questo si accompagna la continuazione del trend diretto a valorizzare la sussidiarietà sia orizzontale che verticale, il passo in avanti per la democrazia è notevole.

 

Se governi deboli, colonizzazione della società civile e blocco del pluralismo istituzionale furono le due coordinate della formula democratica del dopoguerra, oggi occorre un modello di democrazia basato su coordinate diverse: da un lato alla debolezza del Governo è opportuno che succeda un reale potere di soddisfare le domande in campo (basti pensare all’esigenza di fronteggiare fenomeni globali come quello della crisi finanziaria), e dall’altro alla colonizzazione della società civile e al centralismo è necessario che si sostituisca la sussidiarietà, sia orizzontale che verticale.

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