Alberto Alesina e Andrea Ichino hanno scritto un libro (“L’Italia fatta in casa”, Mondadori) per sostenere una tesi che potremmo sintetizzare così: è giunta l’ora che anche la famiglia italiana si pieghi alle ineluttabili leggi dell’economica e dello sviluppo. Questa famiglia italiana sarebbe troppo vincolante, costringerebbe i propri figli a studiare all’università vicino a casa per poi aiutarli troppo a trovare lavoro (anch’esso vicino a casa), si sostituirebbe allo Stato come erogatore di servizi sociali, costringendo le donne a casa mentre gli uomini lavorano.



La famiglia così rappresentata risulta un intralcio al funzionamento delle leggi di mercato. Molto meglio sarebbe se la famiglia si allineasse a queste leggi: mobilità geografica, meritocrazia, competizione, flessibilità. Altrimenti l’accusa di “familismo amorale”, evocata programmaticamente fin dalla prima riga del libro, è pronta a calare inesorabilmente.



Dietro questa tesi, che al di là dei toni lievi e delle motivazioni scientifiche si presenta come un assunto ideologicamente indiscutibile, si sono prontamente allineati i grandi organi di informazione (memorabili in questo senso le due pagine che il Corriere della sera ha dedicato al libro, entusiasticamente presentato da un pezzo da novanta come Giavazzi), mentre sul fronte accademico non sono molti gli economisti disposti ad esporsi: chi tocca la teoria economica dominante, d’altronde, di solito si scotta.

Dispiace ricordare ai due noti economisti che le cose non stanno esattamente così. James Hackman, premio Nobel per l’economia, ha dimostrato che se si vuole ottenere sviluppo umano (e dunque sociale ed economico) il primo soggetto su cui lavorare è proprio la famiglia. Intendendo con questo termine non un insieme casuale di individui in continua ricerca di un negoziato (come sostiene la teoria economica cara ad Alesina, Ichino e Gavazzi), ma un luogo di relazioni durature capace di generare al proprio interno elementi decisivi come la fiducia e le cosiddette “non cognitive capabilities”, ovvero perseveranza, propensione al rischio, motivazione, autocontrollo, fiducia nell’altro. Tutte abilità che incidono notevolmente sul rendimento scolastico, la salute, la criminalità, le dipendenze. In una parola: sullo sviluppo sociale, economico, culturale di un Paese.



A partire da questi assunti una buona domanda che potrebbero porsi gli economisti (e che quasi mai si pongono) potrebbe essere legata ai costi sociali delle rotture dei legami famigliari. Se il migliore dei mondi possibili è quello in cui la famiglia non conta più nulla, la crisi delle famiglie non dovrebbe avere conseguenze rilevanti. E invece i dati di ricerca dicono esattamente il contrario.

Nel corso degli anni Novanta una ricercatrice inglese dell’Istituto Civitas, Rebecca O’Neill, ha analizzato una notevole quantità di statistiche sociali, cercando di comprendere gli effetti di separazioni e divorzi sulla vita delle persone. Ecco quel che ha scoperto. Le madri sole hanno il doppio di probabilità di cadere in povertà rispetto a quelle sposate regolarmente, soffrono di depressioni e stress psicologico in maniera 2,5 volte superiore. I padri divorziati, per contro, hanno percentuali di mortalità superiori alla norma di oltre il 70%, e sono maggiormente esposti al rischio di una qualche forma di dipendenza.

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Ma i dati più drammatici sono forse quelli relativi ai bambini. Se il 40% dei bambini inglesi vive in famiglie a basso reddito complessivo, la percentuale sale al 75% tra quelli che vivono con un solo genitore. Il 16% di quelli tra i 5 e i 15 anni di età soffre di disturbi psichici, contro l’8% dei loro coetanei. I figli di genitori divorziati hanno una probabilità tre volte superiore di andar male a scuola, il doppio dei rischi di salute e in particolare di malattie psicosomatiche.

 

Ci sono poi le ricadute sociali segnalati nell’analisi della O’Neill, come la tendenza dei figli di unico genitore a un minor coinvolgimento nelle reti sociali e di vicinato, più alte propensioni alla criminalità e, alla lunga, la crescita dei servizi di welfare che crescono in modo proporzionale alla crescita di famiglie con un solo genitori.

 

Passando agli Stati Uniti, sempre negli anni Novanta la “National Commission on Children” dichiarava che almeno il 75% dei bambini americani con un unico genitore convivente erano a rischio povertà entro l’undicesimo anno di vita, contro il 20% dei bambini vissuti in una famiglia normale. Ancora, Sara e Gary Sandefur, ricercatori ad Harvard, hanno effettuato uno studio su 25mila bambini, descrivendo risultati scolastici mediamente peggiori, minori aspirazioni a proseguire gli studi, e maggiori tassi di ritiro scolastico proprio tra i figli che vivono con un solo genitore.

 

Nel 2006 un think tank inglese, il Social Justice Policy Group, ha pubblicato un preoccupato rapporto su questi temi, giungendo anche a contabilizzare il costo sociale della rottura dei legami famigliari: 24 miliardi di sterline sono il costo delle separazioni e dei divorzi, 18 miliardi il costo sociale del deficit di risultati scolastici da parte dei figli di divorziati, a cui si aggiungono altri 60 miliardi di costi legati alla criminalità di giovani cresciuti in famiglie senza padri. Il totale fa 102 miliardi.     

 

Sarebbe stato interessante se Alesina e Ichino avessero raccontato anche questa faccia della medaglia. Considerare la famiglia come un elemento di intralcio per lo sviluppo a meno che non si pieghi a presunte leggi di maggiore utilità sociale, significa metterne in discussione le funzioni fondamentali. Ma se la famiglia viene meno, i risultati sono catastrofici non soltanto per gli individui coinvolti, ma per tutta la società.