La scorsa settimana, a proposito delle classifiche economiche internazionali che vedono quasi sempre l’Italia relegata in posizioni di retroguardia, segnalavo come la causa sia spesso da individuare, oltre che da oggettive parzialità nel metodo di indagine, in carenze altrettanto palesi in tutto ciò che opera al di fuori dei cancelli delle nostre imprese: il cosiddetto “sistema paese”.
Il ragionamento, che ricordo ha preso le mosse da un duro commento fatto dall’ambasciatore statunitense Spogli nel suo discorso di commiato, va ora completato. Stilare graduatorie è logico per chi pensa che ci sia un unico modo virtuoso per operare: chi si allontana da quel modo retrocede inevitabilmente in classifica.
Se, ad esempio, si ritiene che la grande dimensione media delle imprese costituisca caratteristica peculiare dello sviluppo economico, laddove, come da noi, c’è capillare presenza di piccola e media impresa ciò di per sé segnala una posizione deficitaria.
Al contrario, partendo dal riconoscimento della positività di quanto fatto nel corso degli ultimi decenni, occorre ipotizzare l’esistenza di un nostro modello di sviluppo originale, diverso da quello statunitense, da quello scandinavo, da quello renano e da quello dei paesi del sud-est asiatico e in grado di contrastare la globalizzazione con buone probabilità di vittoria, purché si lavori dall’interno al suo miglioramento continuo. Ciò è confermato anche dall’attuale crisi internazionale che ha avuto origine in paesi ai primi posti delle varie classifiche economiche e i cui effetti, da noi purtroppo subiti, sono per ora mitigati dalla peculiarità del nostro operare sulla scena mondiale.
Oltre che imprenditorialità diffusa, proprietà familiare, piccola e media dimensione, tendenza in tutti i settori alla qualità e all’innovazione, questa peculiarità è fatta di alta, anche se decrescente, propensione al risparmio. L’ammontare di passività delle famiglie italiane, di fatto costituite da mutui e prestiti personali, è pari al 65% del reddito disponibile, contro il 90% della Francia, il 100% della Germania, il 140% degli Usa e il 170% del Regno Unito.
D’altro canto, e si tratta di dati della Banca d’Italia relativi al 2007, le attività reali delle famiglie nostrane (abitazioni, terreni, oggetti di valore e attività immateriali) risultavano pari a 5,1 volte il reddito disponibile e le attività finanziarie (depositi, titoli di stato, obbligazioni, fondi, polizze e azioni) erano oltre 3,5 volte. Molto c’è ancora da fare sull’equità distributiva di questa ricchezza, per cui la metà di tale ammontare è detenuto dal 10% della popolazione, ma di sicuro questa ricchezza è stata prodotta ed anche l’erosione dovuta all’andamento negativo degli ultimi mesi è minima.
È significativo ricordare, ad esempio, che mentre il crescente debito pubblico statunitense è quasi totalmente posseduto dalla Cina, il nostro, purtroppo ancora più alto, è in larga parte nelle mani delle famiglie italiane. Questo originale modello di sviluppo potrebbe dunque sintetizzarsi anche come “stato debole, famiglie forti” con spiegazioni come sempre da rintracciarsi nella storia passata e recente. Uno Stato unitario imposto dall’alto ad una realtà da sempre localistica e gestito per lunghi tratti dei suoi centocinquant’anni da una leadership politica cattolica, espressione di una cultura antagonista, credo, ad esempio, possa spiegare qualcosa.
L’agire economico si esprime in numeri, ma riguarda valori, persone e comportamenti: i primi permettono di giudicare, i secondi di capire. Le classifiche negative servono a non farci abbassare la guardia, ma il lavoro più utile è quello della comprensione delle ragioni di un modello originale di sviluppo che, proprio in questo particolare momento, va riproposto.
Un buon punto di avvio di questo lavoro sembra essere quello del riconoscimento dell’insostituibile valenza di molte piccole imprese nel superamento del conflitto tra capitale e lavoro, nella creazione di occupazione, nella capacità di favorire integrazione sociale tra cittadini italiani ed extracomunitari e, in generale, nel miglioramento del benessere del paese.
Tutto questo è stato realizzato per merito di imprenditori e famiglie, figure chiave nello sviluppo economico e sociale del nostro paese, risorse insostituibili che devono essere riconosciute e valorizzate.
Tra gli imprenditori non mancano certo esempi negativi, e la responsabilità principale a loro imputabile è proprio quella di giustificare la sopravvivenza e il rinverdire di antichi pregiudizi dall’elevato contenuto ideologico: tuttavia la stragrande maggioranza di questa speciale categoria di persone continua a interpretare le contingenze e gli eventi epocali, visti più spesso da chi imprenditore non è come temibili minacce, al pari di grandissime opportunità in cui giocare il proprio destino e spendersi interamente, nell’interesse del bene comune oltre che proprio. E tutto ciò nonostante i limiti del “sistema paese”.
Questa originalità va sostenuta, non protetta. Ma su questo tornerò in seguito.