Siamo un paese il cui originale modello di sviluppo è fondato sulla piccola e media impresa di proprietà familiare e tale resteremo, pur con i necessari cambiamenti del caso, per molto tempo ancora.

Non conviene perdere energie, è questa l’ipotesi fondante più volte ribadita nelle scorse settimane, a pensare nuovi modelli di sviluppo, meglio operare per migliorare quello esistente che non ha assolutamente perso le proprie capacità propulsive. La crisi impone cambiamenti al fare impresa, non necessariamente al modello di sviluppo.

Le nostre aziende, soprattutto quelle piccole e medie, almeno quelle che hanno capito anticipatamente il cambiamento di contesto, sono già da tempo all’opera per rispondere alle novità: ne emerge un modo peculiare di fare impresa che riguarda contemporaneamente gli obiettivi, la strategia e l’organizzazione aziendale, ma anche il comportamento e i valori degli imprenditori. Indipendentemente dalle molteplici differenze, le imprese migliori, quelle che ce la stanno già facendo, mostrano delle linee di azione costanti, anche se non necessariamente presenti contemporaneamente in tutte queste imprese.

In particolare, occorre sostituire una politica aziendale fondata sulla riduzione dei costi con una improntata a realizzare innovazione, qualità e servizio. Questa dinamica appare oggi caratterizzare le imprese forti indipendentemente dal settore di appartenenza. Poiché la ricchezza prodotta a oriente dallo sviluppo impetuoso degli ultimi anni sarà investita anche in qualità della vita e in standard tipicamente occidentali, meglio attendere questi nuovi consumatori attestandoci fin d’ora nelle fasce alte di ogni mercato e migliorando, di conseguenza, la combinazione di innovazione, qualità e servizio contenuta in ciascun prodotto.

Già oggi quote superiori a ogni attesa di scarpe e vestiti italiani di qualità sono venduti sul mercato cinese, mentre altre aziende calzaturiere e del tessile-abbigliamento nostrane subiscono l’insuperabile concorrenza dei prodotti di fascia bassa provenienti dal sud-est asiatico. Attardarsi su una politica di costo o su aspettative circa la reintroduzione di pur comprensibili misure protezionistiche significa abbandonare una prospettiva di sviluppo e di crescita di lungo periodo e ciò, come già è stato detto, è estremamente pericoloso.

Certo, per molte aziende, in particolare per quelle che hanno fatto per molti anni della riduzione dei costi l’unica strategia di presenza vincente sui mercati, questo passaggio non può avvenire in maniera automatica, ma ciò non toglie l’ineluttabilità del cambiamento. Alcuni settori saranno agevolati, altri rallentati, ma tutti dovranno confrontarsi con questo passaggio.

Qualunque tipo di misure protezionistiche appare allora non solo antistorico e di scarso valore strategico, ma anche dannoso. Oltre a incentivare contromisure dello stesso segno da parte di altri paesi e dunque finire con il ridurre drasticamente lo spazio di mercato accessibile a determinate merci, queste misure permettono di continuare a ricercare la competitività nei segmenti di mercato più bassi dove fa premio il costo ridotto e dissuadono dall’investimento alla ricerca dell’innovazione, della qualità e del servizio che il mondo si aspetta dalle imprese italiane anche perchè è meno in grado di replicare.

La concorrenza, anche quella globale più temibile, aguzza il grande ingegno dell’imprenditorialità nostrana aprendo le strade a continue, sia pure faticose, evoluzioni; la relativa tranquillità costruita su misure protezionistiche, al contrario, spegne l’ardore imprenditoriale, vera peculiarità del nostro agire economico. A parità di stanchezza del guidatore è nella relativamente protetta autostrada che più facilmente prende il pericoloso “colpo di sonno”, mentre nella più perigliosa circolazione viaria normale l’attenzione è maggiormente sollecitata e, dunque, desta.

La politica nazionale ed europea non deve conseguentemente impegnarsi a perseguire un obiettivo di breve periodo elevando barriere protezionistiche, ma al contrario ridurre le difficoltà al fare impresa all’interno dei propri confini territoriali e lavorare per uniformare nel tempo tra le varie zone del mondo le diverse condizioni di contesto dell’agire economico, come il rispetto dei diritti delle persone, e dunque anche dei lavoratori, delle condizioni di lavoro e dell’ambiente.