Proprio la mia professione e specializzazione – avvocato penalista da più di quindici anni – mi impone di fare un passo indietro e di non cercare nelle categorie del mio mestiere la misura di un fatto che ci sorpassa: la vita di una persona.

In questi mesi tanti hanno già speso scienza e parole per attribuire significato ai termini sentenza, conflitto di competenza, direttive, e molti altri. Di tutte queste osservazioni ve ne sono alcune assolutamente fondate, altre assolutamente agghiaccianti.



Voglio parlare della vita di una persona perché nell’intervista rilasciata ieri da Amato De Monte, primario rianimatore che ha accompagnato Eluana Englaro da Lecco a Udine, ho sentito dire testualmente, rispondendo alla domanda se ci sarebbero state sofferenze, che «Eluana non soffrirà perché è morta diciassette anni fa».



Nella confusione delle cose dette in questi tempi questa mi sembra davvero una menzogna: se Eluana fosse morta diciassette anni fa non si avvertirebbe oggi un dramma tanto presente quanto lacerante, quello del papà, ma anche delle persone che sono state accanto ad Eluana assistendola per tutto questo lungo periodo.

Non meno grottesca mi sembra l’affermazione dell’assessore della Regione Friuli Venezia Giulia riportata ieri dal Corriere della Sera a pag. 21: «La tipologia ed il percorso di ammissione alla struttura residenziale “La Quiete” è avvenuta nel rispetto e con le modalità prescritte dalla normativa regionale», ma la procedura «come da richiesta della struttura “La Quiete”, è finalizzata all’accoglimento di pazienti per il recupero funzionale, e alla promozione sociale dell’assistito e/o al contrasto dei processi involuti in atto».



Ma la descrizione data da altri quotidiani fornisce una caratterizzazione diversa delle cure prestate ad Eluana. La Repubblica di ieri (pag. 2) titolava: «Al suo capezzale 14 persone, le regole per l’ultimo respiro».

Anche secondo la terminologia giornalistica, recentemente utilizzata per descrivere fatti oggetto di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria di Milano, si dovrebbe parlare di “Clinica degli orrori”: forse che il “protocollo terapeutico” descritto dalla stampa costituisce «recupero funzionale», «promozione sociale», «contrasto ai processi involuti»?

Si potrebbero a questo punto evocare tante figure giuridiche: alcuni hanno richiamato la violenza privata (costringere taluno con violenza o minaccia ad omettere qualcosa) nel comportamento del ministro Sacconi; altri la mancata esecuzione di un provvedimento del Giudice da individuarsi nel comportamento del presidente Formigoni rispetto alla sentenza del Tar Lombardia; in queste ore si potrebbero invocare la truffa o il falso, posto che non sembra davvero che Eluana sia stata ricoverata alla Clinica “La Quiete” per un «recupero funzionale o per un contrasto ai processi involuti».

Tutto questo genera profonda tristezza. La vita umana non può essere rinchiusa – soppressa – in una sentenza o in un qualsiasi altro protocollo giuridico o terapeutico per un dato evidente al quale non possiamo cambiare nome: la vita non è il prodotto delle nostre capacità e non possiamo darcela da noi.

Come affermato da S.E. il Card. Barragan, condividendo io il suo pensiero nella mia abituale qualità di difensore di imputati, «come cristiano, non posso che affidarmi alla misericordia divina, pensando in primo luogo alle persone che soffrono e che non possono difendersi. Come Eluana Englaro».