Squassato dalla crisi economica, l’Occidente guarda con maggiore fatica (Stati Uniti) e senso di impotenza (Europa) ai due “buchi neri” del pianeta. I dossier si accumulano sui tavoli delle cancellerie e le conversazioni strategico-diplomatiche si arenano nei dubbi e nell’esaltazione delle difficoltà. Da un lato l’agglomerato Afghanistan-Pakistan, dall’altro quelle sponde arabo-africane, ormai unite più che separate dal Golfo di Aden. Tirato un sospiro di breve sollievo con la tregua di Gaza -il processo è comunque lungo e occorre dare tempo agli sviluppi interni di Israele e della Palestina- riflettori e satelliti sono oggi puntati su Kabul e Islamabad, Mogadiscio e il sud della penisola araba. Sono il nucleo centrale di quello che già viene definito “il nuovo asse del caos”, che dispone di varie propaggini allungandosi fino all’Asia e che è il frutto dell’incandescente mescolarsi di fattori religiosi, economici e geopolitici.
L’esempio più citato è quello del nuovo preoccupante capitolo della guerra ai talebani. Più soldati americani e maggiore energia bellica, anche da parte della Nato: su questo c’è un consenso piuttosto diffuso, ma è altrettanto chiaro che occorre trovare il modo di superare lo stallo politico interno e di agire decisamente anche e forse soprattutto sui piani della ricostruzione strutturale e del cambiamento “culturale”.
Se viene ucciso il marito della nota giornalista televisiva e se intere regioni sono tornate sotto il potere quotidiano del “lato oscuro della forza”, come infondere fiducia, come spingere al coraggio la maggioranza del popolo? Il tema è in un certo senso educativo e antropologico, ma è una battaglia questa che non si combatte con i droni e i bombardamenti aerei. Inoltre, è un fatto più che certo che una incalcolabile parte del potere talebano viene dalla droga.
Ma l’amministrazione Bush sosteneva che la distruzione dei campi di oppio non faceva parte degli obbiettivi della guerra e così, nel corso degli anni, ci si è ritrovati con oltre l’80% della produzione controllata dagli uomini barbuti. Nelle vicine aree tribali del Pakistan le cose in queste ultime settimane sono sembrate andare un po’ meglio, ma solo perché in alcune province (tra cui la famigerata Swat Valley), con l’approvazione del governo centrale, dal 16 marzo la giustizia verrà amministrata dalle corti islamiche e l’ordine “assicurato” da una organizzazione talebana. Fragilità politica, milizie terroristiche, servizi deviati, contrasto con l’India, capacità nucleare, contiguità con l’Afghanistan, fanno del Pakistan odierno un rebus senza soluzione apparente.
A una certa distanza, dall’altra parte della penisola araba, si è intanto consumato l’ennesimo dramma della Somalia, anch’essa entrata o meglio rientrata nell’orbita dell’islamismo, dopo la parentesi presidiata dall’esercito dell’Etiopia, che non ha potuto tutelare le vecchie autorità ufficiali, ridotte a ectoplasmi. Anche in Somalia vige il regime della sharia, e dopo decenni di sforzi, di soldati e giornalisti occidentali morti, di montagne di denaro europeo investito per sostenere governi esiliati, nel Corno d’Africa si è instaurata solidamente una dittatura coranica. Per molti si tratta di una piattaforma di espansione islamista verso il resto della regione con possibili gravi conseguenze per il Kenya e l’Etiopia. E per di più una piattaforma alimentata incessantemente dai rifornimenti di ogni genere, soldi, predicatori, armi, miliziani, che arrivano dalla Penisola araba attraverso le vie più impensate e più impensabili. Così l’Africa “dimenticata” deve tornare a essere pensata e aiutata, in tutti i modi, come speriamo possano realmente fare i prossimi round del G8 a presidenza italiana.