Molti ricorderanno la facile poesiola di Angelo Silvio Novaro che ci facevano studiare in questa stagione alle elementari. Tra l’altro dice: «Passata è l’uggiosa invernata, / passata, passata! / Di fuor dalla nuvola nera, / di fuor dalla nuvola bigia / che in cielo si pigia, /domani uscirà Primavera». Eh sì, domani è primavera.
Ma non sono questi i primi versi che mi sono tornati alla mente constatando l’imprevedibile ma inarrestabile risveglio della natura, il sorprendente rifluire della sua vita. E neppure quelli dell’ottimistico e malinconico umanesimo, tipo: «Ben venga primavera».
Piuttosto ho pensato a Eliot e al folgorante inizio del suo poema La terra desolata: «Aprile è il mese più crudele, genera / lillà da terra morta, confondendo / memoria e desiderio, risvegliando / le radici sopite con la pioggia della primavera».
Con quell’inaspettato aggettivo – «crudele» – appioppato al ritorno della bella stagione, Eliot sorpassa di slancio ogni interpretazione bambinesca, ogni scontatezza gioviale. La primavera è crudele perché risveglia qualcosa che avremmo voluto continuasse a dormire sotto la «terra morta». In fondo una parte di noi preferirebbe continuare un letargo privo di consapevolezza. Prosegue, infatti, Eliot: «L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse / con immemore neve la terra, nutrì / con secchi tuberi una vita misera». Senza «memoria» e senza «desiderio» ci si può accontentare della «misera» vita al calduccio delle proprie sicurezze misurate, delle dimensioni anguste, della rinuncia che ha paura di ogni sorpresa.
Ma dal tronco secco di questa rassegnata dimenticanza la primavera fa inaspettatamente sbucare il germoglio del desiderio. Che esige una risposta, un compimento, a cui non basta la tiepidezza della rassegnazione. Non è crudeltà; anzi, si potrebbe dire che questa è proprio la «grazia» della primavera. Essa ci invita a considerare che il tempo non è uno scorrere insignificante di momenti in fondo tutti uguali.
Certo, non viviamo più in un contesto agricolo dove il passaggio dall’inverno alla primavera si mostra con l’imponenza di una colossale trasformazione della natura. Nelle città anche il cambio delle stagioni ha qualcosa di artificiale, di scontato. Possiamo mangiare ciliege e angurie anche d’inverno e dell’arrivo della primavera ci avvediamo quasi solo per la necessità di cambiare abbigliamento e per la possibilità di stare un po’ più all’aperto. Ma lo strano prurito di desiderio che ci troviamo addosso, ci dimostra che il tempo non è uno scivolo monotono. Esso offre continuamente una possibilità ripresa. A patto che il desiderio non sia soffocato.
Vale la pena dare ascolto a questo bisogno di rinascita a questa percezione di un tempo che si rinnova. Anche perché la vita dell’uomo, come dice la poesia dei Salmi, di primavere ne ha solo «settanta, ottanta per i più robusti». Qualsiasi sia il numero di questa che incomincia, la primavera ha in sé per ciascuno di noi la promessa di una rinascita, di una novità. Di una pasqua.