Anche stimolato da due articoli usciti sul Corriere (“Il mercato nell’angolo” di Panebianco e la risposta di Tremonti, “Il pendolo tra Mercato e Sociale”), volevo dedicare l’editoriale di questa settimana al rinnovato dibattito tra regole e libertà economica. Poi mi sono imbattuto in due libri e un film e ho pensato di rimandare questo tema di qualche giorno e concentrarmi su un altro argomento che solo apparentemente ha poco a che vedere con la crisi economica che stiamo attraversando: quello dell’educazione.

Il film è Gran Torino di e con Clint Eastwood, i libri Il giorno prima della felicità di Erri De Luca e Il giovane Jim di Tony Earley. Sono storie di giovani, alcuni orfani altri no, e di padri putativi. Storie ambientate in momenti difficili, di cambiamenti sociali ed economici, come la Detroit dei giorni nostri, il secondo dopoguerra a Napoli e la grande depressione degli anni Trenta negli Stati Uniti. E ciononostante storie felici, nel senso di compiute, perché lo scenario fa da sfondo al realizzarsi di un percorso educativo tra generazioni, alla trasmissione di ipotesi di vita e di conoscenze.

Molti sono gli spunti che la “lettura” in parallelo di queste tre opere offre: per esempio che l’educazione è un compito per tutti, non riguarda solo chi vi è vocato, o almeno dovrebbe esserlo, come genitori e maestri. Da qualcuno si impara ciò che ad altri si insegna: è una rappresentazione sufficientemente realistica di qualunque vita pienamente vissuta. Ma è su un aspetto in particolare che vorrei fermare l’attenzione: gli adulti di queste storie sono persone del fare. Un operaio dell’industria automobilistica, un portinaio dalle mille attività, tre fratelli agricoltori.

La rivoluzione industriale, prima, e a maggior ragione, poi, l’epoca post-industriale hanno significato il rallentamento e la fine del travaso di conoscenze pratiche tra una generazione e l’altra: il saggio è diventato vecchio e l’imberbe protagonista della frontiera tecnologica. Anche per questo è aumentata l’incomunicabilità intergenerazionale e l’innovazione è troppo spesso vissuta in opposizione alla tradizione. Ciò ha contribuito ad “allungare la squadra” e a perdere di vista l’orizzonte complessivo.

In realtà la ricchezza stabile di un popolo, in particolare del nostro, è nella capacità di fare, non nell’architettura dell’affare: meno finanza, più artigianato. Questa è sempre stata la strada battuta con successo dalle nostre piccole e medie imprese nello scenario economico globale, ma è innanzitutto il terreno su cui reimpostare una proposta educativa. Per uscire dalla crisi, a riprendersi non devono essere solo i consumi, ma anche il significato delle cose, a partire da quelle più concrete.

Una delle sfide che il difficile momento economico ci pone è dunque quella di saper coniugare le possibilità del moderno con le sicurezze dell’antico, i mezzi con il fine, ma questa è innanzitutto una questione di educazione che va affrontata nel rapporto tra generazioni. È lì che si crea la compattezza della squadra, tra difesa e attacco, nell’arte e nella cultura come nell’attività economica, si pensi al tema della successione generazionale, nella stesura dei programmi dei corsi universitari come nell’impaginazione dei giornali ed in qualunque altra azione umana.

Il problema, come giustamente faceva notare Massobrio qualche giorno fa, è che non sappiamo più come fare, da che parte ricominciare. È dunque il momento di guardare a chi questo sforzo lo ha già intrapreso e farsi discepoli.