Il caso del film Katyn, dedicato all’eccidio degli ufficiali polacchi ad opera dell’esercito sovietico, ripropone il tema della verità storica e del suo rapporto con il presente. La Russia boicotta il film perché fatica ad ammettere la propria responsabilità negli orrori subiti dalla Polonia.
Comprenderne le ragioni riesce difficile perché chi dovrebbe ammettere delle colpe è uno Stato che non c’è più, quello sovietico. E dunque, perché la Russia di oggi dovrebbe ereditare quel passato? Un problema simile c’è con l’Ucraina, relativamente alla grande carestia degli anni Trenta e allo sterminio dei contadini (per farsi un’idea rapida sfogliare qualche pagina dello straordinario Koba il terribile, di Martin Amis). Per gli ucraini è stato un genocidio, cioè l’intenzione di Mosca era di annientarli in quanto popolo, ma i russi respingono duramente l’accusa addebitando, in questo caso sì, la colpa al regime staliniano. Sul caso era intervenuto anche Solzenicyn, poco prima di morire, difendendo le ragioni nazionali.
Queste vicende sono in grado di mettere alla prova, anche dura, le relazioni tra gli Stati moderni: a distanza di decenni Russia e Polonia, Russia e Ucraina, non trovano pace. Armistizio si, ma una pace profonda e radicata no. La storia è sempre lì, in mezzo al campo di gioco. I serbi mantengono un ricordo vivissimo della disfatta subita nel 1389 a Kosovo Polje, quasi fosse accaduto ieri, e la Turchia, dopo quasi un secolo, non ammette il genocidio armeno, anzi, in questo 2009 nelle scuole viene fatto circolare un “documentario” che dovrebbe dimostrare la falsità dell’accusa.
Il “passato che non passa” è una formula coniata a proposito della capacità della Germania di fare o meno i conti con il ventennio nazista. E quando con il passato non si vogliono fare i conti, si cerca di cancellarlo, come dimostra la distruzione davanti agli occhi dell’Europa dell’eccezionale patrimonio architettonico cristiano nel nord di Cipro ad opera degli occupanti turchi. Ma è uno sforzo inutile. Per una parte e per fortuna il passato non passa mai. Torna sempre, magari nella forma di uno splendido film. O delle ricerche storiche, che hanno devastato il mito degli “italiani brava gente” all’opera nelle colonie, dalla Libia all’Etiopia.
E allora la verità della storia è un ostacolo? E che si fa quando le ragioni della verità confliggono con le ragioni della politica? Ad esempio, gli atti del Tribunale internazionale sono oggetto di grandi discussioni. Nessuno dubita che il famigerato Joseph Kony, leader dell’ugandese Lord’s Resistance Army si sia macchiato di gravissimi e innumerevoli crimini contro l’umanità (bambini soldato, schiavitù, tortura, ecc.), ma la decisione del Tribunale di incriminarlo e ricercarlo ha allontanato o avvicinato la possibilità di pacificare quella regione (anche i lunghi negoziati patrocinati da gloriose organizzazioni cattoliche sono falliti)? E come risolvere il recentissimo caso del sudanese Al Bashir, anch’egli incriminato per i massacri nel Darfur?
Sono problemi che potrebbero anche non avere una soluzione. In realtà, il passato non propone mai soluzioni. Israeliani e palestinesi, prigionieri della “guerra dei cento anni” (The Economist), non troveranno mai un accordo, se la piattaforma dell’accordo continua a essere fornita dal passato. Mai potrà essere resa interamente giustizia, mai potrà essere cancellato il fatto di aver subito o inflitto un torto.
Deve accadere qualcosa nel presente perché il passato possa essere accettato, assunto e compreso (esattamente il contrario della pretesa di eliminarlo o del tentativo di falsificarlo). Qualcosa che faccia scattare una mossa umana e quindi politica che sia diversa e che sia adesso. È possibile, come è stato possibile per i nord-irlandesi quindici anni fa, e vediamo ancora oggi quanto non si è mai assicurati del tutto dal male della storia. Ma è di una novità nel presente che hanno necessità le nazioni e i popoli per poter purificare e amare il passato. Del resto accade lo stesso nella vita dei singoli uomini.