Della bellezza Leopardi è stato indomabile ricercatore. In Aspasia la chiama «raggio divino» e in Alla sua donna le dedica uno struggente canto: «Di qua dove son gli anni infausti e brevi / questo d’ignoto amante inno ricevi».

E della bellezza si occupa l’ultimo saggio di Roger Scruton (Beauty, Oxford University Press), anticipato in parte qualche giorno fa da Il foglio. Senza troppi giri di parole, Scruton afferma che la nostra cultura è dominata – in direzione opposta a Leopardi – dalla «fuga dalla bellezza». Nel nostro mondo «c’è un desiderio di eliminare la bellezza, di cancellarla».

Esempi? Il luogo comune secondo il quale ogni forma artistica deve rompere gli schemi, deve scandalizzare e urtare, deve violare l’armonia. Basta leggere le pagine culturali dei quotidiani per accorgersi che una caratteristica che l’opera d’arte deve avere per essere accettata come moderna ed efficace è proprio il suo carattere di rottura, di scandalo, di stranezza. Scrive Scruton che un must della produzione artistica attuale è quello «di sfidare l’ortodossia e liberare dalle costrizioni convenzionali»; la bellezza, quella che di schianto ognuno sente come tale, è «declassata come qualcosa di troppo dolce, troppo legato all’evasione e troppo lontano dalla realtà per meritare la nostra disincantata attenzione».

Ma perché la cultura moderna ha imboccato questa traiettoria «contro» la bellezza? «Perché la bellezza ci fa una richiesta: chiede di rinunciare al nostro narcisismo e di guardare al mondo con riverenza». In altre parole, la bellezza «ci dirige oltre questo mondo, verso un “regno dei fini” nel quale le nostre brame immortali e il nostro desiderio di perfezione sono finalmente soddisfatti».

Insomma, la bellezza è un segno. È una apertura, un punto di fuga verso il definitivo, il consistente, l’eterno; «finestra sul mistero» dicono gli iconografi orientali. Essa ha una inestirpabile dimensione religiosa: partendo dal reale intuisce e desidera l’armonia definitiva cui aspiriamo.

Per questo la «fuga dalla bellezza» ha una connotazione decisamente anti religiosa: si combatte la bellezza perché si rifiuta la dinamica del segno presente nella realtà. Scruton usa infatti la parola «dissacrazione» e dice che essa «è un tipo di difesa contro il sacro, il tentativo di distruggere le sue richieste. Le nostre vite sono giudicate dalla presenza di cose sacre e al fine di fuggire a quel giudizio distruggiamo ciò che sembra accusarci». Le nostre vite sono giudicate dal desiderio del vero, di cui la bellezza è splendore. Diceva Nietzsche: «Questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio».

Ma per quanto odiata e dissacrata possa essere la bellezza, per quanto irraggiungibile e misterioso possa apparire ciò di cui è segno, essa si ripropone. Sì che ciascuno – consapevole della «differenza reale fra il sacrilegio, con il quale siamo soli e inquieti, e il bello, con il quale siamo in compagnia e a casa» – può condividere l’esperienza della «cara beltà» descritta da Leopardi: «Di te pensando, / a palpitar mi sveglio» (Alla sua donna).