Economia o diritto? Libero mercato o regole? I tempi che stiamo attraversando ripropongono lo storico dilemma. La libera concorrenza è in grado sempre e comunque di migliorare le condizioni di vita o il bene comune necessita di visioni e interventi regolatori?

C’è chi, con toni molto più sommessi a causa dei recenti insuccessi dei mercati finanziari, continua a sostenere la prima e chi non riesce a sganciarsi dai secondi e chi, infine, come il ministro Tremonti, mescola i due elementi riproponendo l’economia sociale di mercato. Vorrei qui contribuire al dibattito con un’osservazione che nasce da quella che mi appare essere l’evidenza del reale: non dunque ciò che è giusto fare domani, ma ciò che si è fatto ieri.

In Italia stato e mercato sono sempre stati, entrambi, debolissimi. La vicenda degli ordini professionali e della difficoltà del decreto Bersani di passare dalle parole ai fatti è lì a dimostrare le resistenze che le corporazioni sono sempre state in grado di opporre a qualunque tentativo di liberalizzazione. Tredici ordini professionali, dagli ingegneri ai giornalisti, dai geometri ai periti industriali, dai commercialisti agli psicologi e via ordinando, hanno di fatto vanificato, giorno dopo giorno, due capisaldi dell’originaria “riforma”: la tariffa minima, che è stata derubricata a non obbligatoria, e la possibilità di promuovere i propri servizi anche attraverso la pubblicità comparativa, che nessuno fa per paura di incorrere in denunce, ad esempio per aver favorito sconti, all’ordine stesso per comportamento scorretto.

Lo stato altresì si prepara a festeggiare 150 anni di malsopportazione da parte dei suoi cittadini: tollerato e mai veramente amato. Dai briganti del sud post-unitario ai dialetti sopravvissuti e rinvigoriti, dall’inno relegato alle manifestazioni sportive alla Lega al dieci per cento, dal non- expedit dei cattolici al “né con lo stato, né con le brigate rosse” dei movimenti extra-parlamentari: lo zoccolo duro identitario è altrove, non nello stato unitario, oggi peraltro definitivamente assimilato.

Sembrerebbe di poter affermare che tra stato e mercato in Italia, nei fatti, ha sempre finito con il vincere la società, i corpi intermedi, l’iniziativa personale con tutto quello che ne consegue in termini di libertà operosa e anche di caos organizzativo. Ciò ha significato, per esempio, che partiti negli anni Cinquanta per industrializzare il paese attorno al modello della grande impresa mista, pubblica e privata, ci siamo ritrovati presenti su tutti i mercati internazionali grazie all’imprenditorialità diffusa di centinaia di migliaia di piccole e piccolissime imprese sorte non certo per merito della politica industriale statale, ma neanche per gli assertori del libero mercato, che da sempre hanno faticato a comprendere questo fenomeno e ad affermarne l’originalità.

Questa incomprimibile voglia di autonomia operosa che caratterizza da sempre il nostro popolo è la base su cui continuare a costruire il futuro: va innanzitutto definitivamente accettata come tratto distintivo della nostra identità sociale e, di conseguenza, anche guidata per favorirne l’azione e migliorarne l’efficacia. Un compito per lo stato, un’opzione per il mercato.