Ci sono Paesi che attraggono politici occidentali con un fascino talmente misterioso da risultare a volte incomprensibile. È il caso della Libia, che suscita l’appassionato interesse di quasi tutti i governi italiani; come anche, su un piano diverso e più vasto, della Turchia.

La scorsa settimana è stato lo stesso presidente Obama a posizionare Ankara sulla piattaforma del rilancio del dialogo con l’Islam mondiale. Non solo, ma la vuole in Europa, esattamente come il suo predecessore Bush, pur sapendo che due Paesi chiave dell’Unione, Francia e Germania, sono contrari e lo saranno molto a lungo. La Turchia piace a parecchi, inclusi numerosi politici italiani, dal presidente del Consiglio ai radicali.

Ci sono molte ragioni per questa preferenza, analizzate in lungo e in largo almeno da quando, quasi dieci anni, l’Europa ha cominciato ad affrontare l’ipotesi di una Turchia “dentro”. Ragioni strategiche, geopolitiche, economiche e anche quella vaga argomentazione psicologica che si tratti di un Paese che è meglio avere amico piuttosto che ostile.

Il fatto è che il nodo Turchia è molto complesso e le semplificazioni circolanti non aiutano a scioglierlo. Un Paese laico per forza (la Costituzione garantita dall’esercito) e musulmano per vocazione. Tremendamente nazionalista e identitario. Sofisticato e meraviglioso per chi conosce Istanbul, la costa mediterranea, la Cappadocia; misero e primordiale nell’immensa regione “interna”. Nemico degli arabi e della Russia, amico di Israele.

La Turchia stessa respinge l’immagine che l’Occidente (soprattutto l’amministrazione Bush e alcuni europei) ha voluto applicarle di “Paese islamico moderato”: importanti settori della politica, dell’esercito e dell’economia non accettano la “riduzione alla religione”, perché la Turchia è di più, è altro. Tuttavia è governata da un partito musulmano che noi da qui definiamo “moderato”, ma solo perché in realtà ne sappiamo ben poco. Negli ultimissimi anni poi la grande euforia per l’Europa si è sbiadita. E non è più così chiaro chi davvero tra i diversi poteri forti della società turca consideri ancora l’approdo a Bruxelles come la realizzazione di un sogno.

Ma ci sono tre questioni che i politici euroamericani che guardano alla Turchia con tanto favore dovrebbero considerare con molta maggiore attenzione, se davvero intendono aiutare una evoluzione delle relazioni globali basata su argomenti razionali (la “ragione allargata” di Benedetto XVI) e non soltanto “mediare” sugli interessi a breve raggio strategico-economico.

La prima, la legislazione in materia religiosa: è troppo complesso riassumerla in questa sede, ma basti sapere che per quanto riguarda le confessioni cristiane, solo due vengono riconosciute e “protette” (armeni e greco-ortodossi), mentre le antichissime chiese orientali (maroniti, ecc.) così come i latini e i protestanti sono del tutto “inesistenti” come soggetti; va aggiunto che anche nel caso dei “protetti” ci sono enormi problemi sulle proprietà e sul reale godimento di diritti (rimando alla lettura del Rapporto 2008 dell’Aiuto alla Chiesa che soffre e alla benemerita attività di informazione dell’agenzia Asianews).

La seconda, la vicenda armena: è evidente che l’ostinato rifiuto a riconoscere il genocidio non ha a che fare con la storia del passato, ma con la cultura del presente. La terza e più importante, l’occupazione trentennale della parte nord di Cipro con 40mila militari e 180mila “coloni” portati dall’Anatolia: una situazione che ha dell’incredibile, perché un Paese membro a pieno titolo dell’Ue è amputato di un terzo del suo territorio e c’è chi sostiene (anche in Italia) che per aggiustare le cose si dovrebbe progettare una “federazione” come se ci fossero due Stati; nel frattempo e nell’indifferenza generale, a Cipro nord non solo sono scomparsi i cristiani (con l’eccezione di un paio di villaggi), ma anche le loro chiese, i loro cimiteri, le loro case.