Nella ricerca spasmodica di esempi moderni di convivenza tra culture e fedi diverse, in specie da quando i modelli “assimilazionista” della Francia e “comunitarista” della Gran Bretagna hanno mostrato crepe paurose, abbiamo completamente dimenticato il Libano. Il piccolo Paese mediterraneo annovera 18 confessioni religiose ufficialmente riconosciute: dodici cristiane, 5 musulmane e una microscopica comunità ebraica. Realtà multiconfessionale e multietnica (arabi e armeni), il Libano ha attuato un singolare sistema di partizione del potere, garantendo ad ogni cittadino non solo i diritti civili ma anche il rispetto dell’identità religiosa. Ciò grazie al Patto Nazionale che nel 1943, confermando la Costituzione risalente al 1926, venne firmato dai leader cristiani e dai leader musulmani. In virtù di quell’accordo la presidenza della Repubblica spetta ad un cristiano maronita, quella del Consiglio dei Ministri ad un musulmano sunnita, quella del Parlamento ad un musulmano sciita. Il Parlamento conta 120 membri, metà musulmani e metà cristiani. Nell’ambito delle due metà le confessioni ripartiscono i seggi in proporzione all’appartenenza ai diversi riti. Lo stesso criterio viene utilizzato per la composizione del Consiglio dei Ministri e per l’amministrazione pubblica delle cinque regioni. Il sistema è stato riconfermato, con qualche piccola variante, dagli accordi di Taif, raggiunti esattamente venti anni fa alla fine dell’interminabile guerra interna (in parte civile, in parte no) che ha sconvolto il Paese dal 1975. La Costituzione sancisce la libertà di coscienza e garantisce ad ogni culto riconosciuto la protezione del potere istituzionale. La legge stabilisce poi le materie di competenza delle comunità: la gestione dei beni religiosi, dei luoghi di culto, delle istituzioni educative e di beneficenza non governative e molte questioni attinenti la sfera personale, come il matrimonio, le adozioni, la tutela dei minori. Il matrimonio civile non esiste, ed esiste un ampio numero di leggi civili cui tutti i libanesi devono rispetto.
E’ evidente che si tratti di un assetto fragilissimo, e oltretutto basato su dati dell’ultimo censimento effettuato: nel 1932! Allora i cristiani costituivano quasi il 60% della popolazione e oggi si pensa che a stento raggiungano il 40%. Ma oggi nessun libanese desidera svelare una verità che distruggerebbe il filo sottile che lega quel che a noi appare come un bizzarro patchwork di liturgie, lingue, partiti e immagini religiose. Il fatto stupefacente è che il Libano è l’unico paese del mondo a maggioranza musulmana che riesce a combinare democrazia reale, piena parità confessionale e tutela dei diritti fondamentali individuali, e che non sono bastati ad annientarlo i continui tentativi interni ed esterni, ininterrottamente perseguiti fin dagli anni ’50. I libanesi (parte di loro) hanno sempre tenacemente difeso il loro esempio, e lo hanno sempre pazientemente ricostruito dalle macerie delle guerre e dalle imboscate dei terroristi. La pazienza dei cristiani e la consapevolezza dei musulmani sono stati i fondamentali mattoni di una costruzione sociale, lambiccata quanto si vuole, ma capace di garantire piena libertà per tutti. Molti considerano il Libano una specie di fossile istituzionale, e usano la parola “libanizzazione” per designare un fosco panorama di particolarismi e micropoteri in conflitto tra loro. E se invece il paradigma libanese fosse stato adottato (e adattato) per i nuovi assetti dell’Irak? E se si provasse in Bosnia e in Kossovo? Sono sicuro che se lo conoscessimo meglio anche noi europei potremmo trovarci qualcosa da imparare.