«Certo che le circostanze non sono favorevoli, e quando mai, bisognerebbe …/ bisognerebbe niente / bisogna quel che è / bisogna il presente». Questo cercavo di argomentare settimana scorsa circa l’eterno confronto tra negatività e positività. E qualcuno lo ha fatto molto meglio di me, cioè sinteticamente: i P.R.G., Per Grazia Ricevuta, (ex CCCP e CSI) Giovanni Lindo Ferretti, Gianni Ma roccolo e Giorgio Canali nel loro ultimo cd.
Avevo promesso per oggi delle esemplificazioni di quel ragionamento riferite all’economia, ed eccomi pronto a farle. Ma prima permettetemi un passaggio alla stretta attualità. Da qualche giorno si respira aria nuova: tutto d’un colpo in economia c’è meno pessimismo e non si capisce realisticamente perché.
Possiamo veramente ancorare a qualche grandezza macroeconomica con segno positivo lo sguardo sul nostro futuro? Se così fosse prepariamoci rapidamente a ri-precipitare in un cupo allarmismo. No, il nostro destino, e anche il nostro umore, non può essere appeso a dei numeri, per quanto importanti, ma deve fondarsi sulla certezza che il modello di sviluppo del paese è solido e destinato a perpetuarsi nel tempo anche se la crisi, che c’è e ci sarà ancora nel prossimo futuro, vede in difficoltà un numero crescente di imprese rispetto alla media di tempi normali.
Imprese in difficoltà, imprese che chiudono ce ne sono sempre state, anche nelle fasi di crescita economica, e sempre ce ne saranno perché essere imprenditori vuol dire rischiare. Oggi, ed è questa la sostanza della crisi, almeno nel nostro paese, ce ne sono di più, ma senza che questo mini le fondamenta del nostro modello di sviluppo.
Ed eccoci al tema di oggi: la positività del reale rispetto alla seduzione del sogno, il presente rispetto all’astrazione utopica. In economia mi vengono in mente due esempi. Il primo è quello delle nostre piccole e medie imprese, da molti vituperate perché troppo piccole e di proprietà familiare. Nanismo industriale e capitalismo familistico sono state, e in misura minore sono ancora, le accuse di chi paragonava la nostra realtà industriale di successo a quella di altre nazioni economicamente più avanzate, segnatamente gli Stati Uniti.
Ciò che caratterizza quel modello e da noi manca o è diverso, è il succo del ragionamento di alcuni, segnala una nostra carenza, un limite da colmare. A parte la considerazione, ormai diffusa, che nella crisi stiamo un poco meglio di altri proprio per questa nostra supposta “arretratezza”, pensare di poter passare nello spazio di una generazione da un modello di imprenditorialità diffusa a quello delle corporation statunitensi è assurdo, appunto utopico. Riconosciamo invece l’originalità del nostro modello di sviluppo, che tanto bene ha fatto al Paese, e, partendo da questo riconoscimento, lavoriamo per migliorarne l’efficacia.
C’è un secondo esempio che riguarda invece un filone editoriale di grandissimo successo inaugurato da La casta di Rizzo e Stella e che annovera ormai diversi titoli, alcuni veri e propri best seller. Il tema comune è la denuncia degli altissimi costi, spesso dovuti a sprechi, della democrazia. Nulla da ridire sull’obiettivo, molto sul metodo. Nessun imprenditore avveduto giudica la bontà di un’azione sull’esclusiva considerazione dei costi correlati: poiché costa molto non investo in quel particolare settore o macchinario.
È il ritorno complessivo nel tempo quello a cui presta attenzione qualunque investitore oculato. La nostra democrazia in sessant’anni ha prodotto tanti e tali risultati positivi, i ricavi e gli utili, che è impensabile provare ad elencarli: certo molti sono anche i limiti, i costi, come per ogni azione umana ed è bene impegnarsi per ridurne la portata. Ma se l’effetto cercato non sono solo i pur legittimi diritti d’autore milionari non sarebbe più giusto che ciascuna di queste opere iniziasse con un riconoscimento sentito e partecipe del benessere diffuso che la democrazia ha assicurato alle ultime tre o quattro generazioni?
Anche in economia, è solo partendo da uno sguardo positivo sul presente che si trovano le energie per impegnarsi a cambiare quegli aspetti della realtà negativi e limitanti; al contrario la denuncia fattasi professione fa si che l’interlocutore si chiuda su sé stesso in difesa del proprio spazio vitale e la società imbarbarisca.