La grande gara di solidarietà iniziata pressoché subito dopo la prima grande scossa di terremoto in Abruzzo, lunedì notte, è davvero commovente. Dagli ambienti più diversi – penso, ad esempio, al mondo dello spettacolo – la risposta è stata forte e immediata: segno che permane, nella maggior parte di noi, un impeto buono, quello che ci porta a tendere la mano prima di ogni altra considerazione.
C’è stata qualche polemica, questo è vero, ma la mia impressione è che si trattasse di un modo di riempire i palinsesti più che di una discussione vera e propria. La verità è che, di fronte al male, gli uomini sentono la necessità di stringersi in compagnia: il destino non lo si affronta da soli.
Due immagini, però, vengono a drammatizzare questo quadro che, preso per sé, ridurrebbe tutto il problema alla generosa risposta dell’uomo a una calamità di per sé priva di senso – come dire: di fronte all’assurdità dell’esistenza, diamoci una mano. Se fosse soltanto così, infatti, finiremmo per concordare con le amare conclusioni del Leopardi delle Operette Morali o de La Ginestra, tutte dirette a mostrare la nullità dell’uomo di fronte alla suprema indifferenza della Natura.
La prima immagine è la più inquietante. È la notizia della seconda, grande scossa che ha colpito l’Abruzzo intorno alle 19:30 di martedì. Immaginiamo gli sfollati intirizziti, i volontari che distribuiscono cibo e coperte, i medici che si danno da fare nei loro ospedali improvvisati, i rappresentanti della Protezione Civile e del Governo e, all’improvviso, un nuovo boato, una nuova scossa. L’attività si ferma e per un istante si crea un vuoto in ciascuno: un istante di sgomento. E la consapevolezza che, di fronte a eventi così grandi, non c’è risposta adeguata. Nessuno sa come si fa a imbrigliare un terremoto, e forse non lo sapremo mai.
Quindi, è evidente che non si può “far fronte” a tutto. Chi pretende questo finirà incattivito contro il destino e contro Dio, come nel film Katyn, dove una donna macerata dal dolore finisce per trasformare in pretesa la propria domanda di giustizia, consegnandosi così (come vuole il potere) alla disperazione. Noi siamo poveri e impotenti, e nulla è veramente nostro, se non quello che ci è stato donato e perciò può esserci tolto.
La seconda immagine è quella della mamma trovata morta abbracciata alle sue figliolette, morte anch’esse. Mi sono chiesto a lungo il perché di quell’abbraccio. Era solo il tentativo disperato di salvare la vita delle due bambine? Davvero quella donna poteva contare sulla riuscita di un simile progetto? Io credo che ci fosse anche qualcos’altro: il bisogno di affermare un legame, un rapporto che costituisce l’uomo perfino al di là della morte: “Comunque vada, io sono la vostra mamma, vi amo e la morte – arrivasse pure tra una frazione di secondo – non vincerà su questo amore”.
Di fronte a una sciagura così, o diventiamo più cattivi o riconosciamo che c’è un Mistero dal quale dipende ogni nostro respiro, ivi incluso l’amore per i nostri figli o la morte sotto le macerie di una casa crollata. Ma quale cuore umano potrebbe restare a lungo di fronte a fatti così sgomentanti senza cedere alla rabbia, alla smania di fare, allo scandalo di fronte alle inevitabili inadempienze? Ci vuole una grande fortuna: quella di aver potuto incontrare, vedere, toccare la risposta al grido di questo cuore. Perché il cuore è quella cosa che, in noi, si ribella alla sentenza annunciata che ci vuole destinati al nulla. Un uomo rispose a questo grido: Gesù, Gesù di Nazareth.
Per stare di fronte allo sgomento di un terremoto, e continuare a domandare, è necessario aver conosciuto quell’uomo che alla povera vedova cui era morto l’unico figlio disse: «Donna, non piangere». Da duemila anni, grazie alla Chiesa, l’uomo può fare esperienza di quell’amore, di quelle parole piene di infinita pietà. Finito il tempo dell’emergenza, la sfida, di fronte a persone così colpite dalla disgrazia, sarà questa: portare quell’amore e quella pietà, affinché il carico del dolore, delle morti premature, degli affetti spezzati non finisca avvolto dalla nebbia dell’assurdità.