Diciamo che al minimo i rapporti tra Italia e Libia sono in una fase nuova e come tutte le fasi nuove necessitano di tempo e chiarimenti. Era stato lo stesso ministro Maroni a dire un paio di mesi fa che in Libia, meno di sei milioni di abitanti, ci sono due milioni (!) di stranieri, provenienti in massima parte dall’Africa subsahariana, pronti a “emigrare”. E’ facile immaginare verso dove. Ma come e perché erano arrivati in Libia due milioni di africani? Lo avevo scritto poco dopo l’International Herald Tribune: attratti dalle promesse di lavoro e di accoglienza, avevano immaginato di potersi stabilire lì, e avviare una esistenza finalmente più dignitosa. Ma le promesse non si sono realizzate ed ecco che quel popolo “intrappolato in una vita disperata” la strada si è biforcata: tornare indietro o cercare di sfidare le onde del Mediterraneo. E così abbiamo i barconi costretti a tornare indietro, le tragedie, i centri di accoglienza, Lampedusa in perenne subbuglio, i rimpatri, i pattugliamenti. Un dramma nel quale non mancano la retorica (“anche noi siamo un popolo di emigrati”), le sparate (che arrivano all’apartheid dei vagoni della metropolitana milanese), le insensatezze (tipo “non vogliamo la società multietnica”: scusi, presidente, ma che significa?). Soprattutto, al di là delle frasi e dei gesti simbolici, c’è un problema di dimensioni: se anche i poveri candidati ad una seconda emigrazione fossero solo un milione?
Intanto occorre segnalare che mentre l’Europa, intesa come organismo, non sa o non vuole fare nel campo dell’immigrazione (speriamo che Mario Mauro arrivi presto e bene con qualche idea), i paesi europei sono alle prese con fenomeni diversi. Dublino, soprannominata Dublinski per l’afflusso di quasi duecentomila est-europei dal 2004, anno dell’allargamento, ora è una città flagellata dalla disoccupazione e quasi cinquantamila di quegli immigrati sono già tornati a casa. Il governo ceco incentiva addirittura la partenza, pagando una piccola somma in denaro e il biglietto aereo (sola andata). Anche la Spagna propone alle centinaia di migliaia di sudamericani ormai disoccupati una somma e il biglietto aereo ma chiede anche la garanzia di non farsi più vedere per tre anni almeno. I sudamericani sono nel mirino anche in Giappone (solo brasiliani e peruviani sono quasi quattrocentomila) che ha varato programmi molto aggressivi per convincere al rimpatrio. In Romania invece c’è il problema massiccio dei lavoratori cinesi, praticamente deportati da Pechino nel momento in cui si stavano per costruire le infrastrutture, e ora rimasti senza lavoro e con enormi difficoltà a farsi accettare indietro. E’ il cosiddetto “controesodo” e sta toccando molti paesi che in conseguenza della crisi non riescono più ad accogliere manodopera straniera.
Arrivi e partenze sono fenomeni planetari, ingigantiti dalla globalizzazione, difficilissimi da governare, soprattutto se mancano soldi o se vengono confinati nella politica dell’ordine pubblico. Fenomeni troppo grandi per i singoli paesi, inclusi gli Stati Uniti che da trent’anni non riescono a frenare l’invasione degli “alieni” (così vengono chiamati) provenienti dal confine meridionale e nonostante la quantità di accordi sottoscritti con il Messico. Non è che i nostri accordi con la Libia faranno la stessa fine?