Makiguchi o Pisacane?

Il caso sembra ormai chiuso, ma vale la pena di trarne comunque qualche riflessione. Il caso è quello della scuola materna ed elementare di Roma che aveva deciso di cambiare il proprio nome

Il caso sembra ormai chiuso, ma vale la pena di trarne comunque qualche riflessione. Il caso è quello della scuola materna ed elementare di Roma che aveva deciso di cambiare il proprio nome: invece che all’eroe risorgimentale Carlo Pisacane, si sarebbe intitolata al pedagogista giapponese Tsunesaburo Makiguchi. Motivo? La scuola è frequentata in gran parte da stranieri; ragion per cui risulterebbe più accettabile uno studioso nipponico (siamo nell’epoca della globalizzazione, no?) che un patriota italiano. Proprio su queste motivazioni si sono appuntate aspre critiche: così si perde l’identità nazionale, non è questa la strada giusta per l’integrazione degli stranieri, eccetera. La scuola ha fatto retromarcia e Pisacane dovrebbe rimanere al suo posto.

Viene subito da pensare che Makiguchi e Pisacane sono accomunati da un dettaglio non irrilevante: sono entrambi pressoché sconosciuti – alzi la mano chi ne sa di più sull’italiano che non sul giapponese – e quindi l’uno vale l’altro. Ma sarebbe una conclusione affrettata. L’intitolazione di uno spazio pubblico, infatti, riveste un carattere simbolico, la cui importanza sembra a prima vista sfuggire, ma è molto importante. A fine Ottocento, per esempio, molti consigli comunali italiani dedicarono numerose sedute e affrontarono scontri politici rilevanti al solo scopo di intitolare una strada o una piazza a Giordano Bruno. L’intento era chiaro: i fautori di questa scelta non erano interessati alla sorte del frate bruciato a Roma nel 1600; a loro interessava porre un inequivocabile segno di anticlericalismo negli spazi comuni della convivenza civile. Tutti quelli che avrebbero visto il nome di quella piazza o scritto su una lettera l’indirizzo «via Giordano Bruno» avrebbero pensato a quanto fosse stata scellerata la Chiesa cattolica e tratto le debite conseguenze. Insomma, è per un interesse presente che si decide di celebrare questo o quel personaggio del passato.

Ma allora occorre che l’interesse presente sia realmente vivo e vissuto. Altrimenti il valore passato che si vuole celebrare (in questo caso la – presunta – identità nazionale sgorgata dal risorgimento) e il personaggio che lo incarna (in questo caso Pisacane) non restano altro che reperti archeologici, del tutto insignificanti.

La piazza principale del paese dove ho fatto le scuole elementari è dedicata a Quintino di Vona, un militante antifascista lì fucilato nel 1944. All’approssimarsi del 25 aprile ci portavano a celebrarne la memoria. Quello che risultava convincente non era la retorica antifascista, ma la storia di sacrificio incarnata da Di Vona che i nostri vecchi ci raccontavano e, soprattutto, il loro volto commosso al suo ricordo. Un presente, insomma.

La Chiesa cattolica è una delle più gelose custodi della propria storia, del proprio passato. Non esiste un edificio sacro che non sia intestato ad un santo o un altare che non ne abbia una reliquia; le loro vicende sono continuamente raccontate e celebrate nell’anno liturgico. Ma è solo la partecipazione presente a quello che essi hanno vissuto a renderne interessante la memoria. Se così non fosse, saremmo cultori di cose morte, necrofili.

La domanda è, dunque, cosa resta vivo di Pisacane?

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