E venne il momento dell’etica. Anche nell’impresa, in tempi di crisi, si ricorre sempre più spesso alla magica parola. Le difficili vicissitudini economiche che stiamo vivendo per molti sono dovute a mancanza di regole o al loro non rispetto: in entrambi i casi la soluzione conclamata è il necessario comportamento etico dei soggetti decisori, anche all’interno delle imprese.
Come più volte sostenuto nelle scorse settimane l’origine della crisi mi sembra più educativa che etica, che è come dire farina e pane, materia prima e prodotto finito. Senza educazione non c’è etica che tenga come è provato dal comportamento di molti manager di aziende di credito e di imprese finanziarie d’oltreoceano che, dopo aver probabilmente frequentato i corsi di business ethic delle principali istituzioni accademiche statunitensi, hanno condotto al fallimento le proprie imprese non prima, per esempio, di essersi distribuiti laute stock options.
Un eccesso di regole, peraltro, origina spesso dalla mancata fiducia nel comportamento umano che deve dunque essere il più rigidamente amministrato, tranne poi, a fronte di una burocrazia asfissiante e opportunista, invocare l’autocontrollo etico: ogni riferimento ad un certa concezione della nostra cara Europa è assolutamente voluto.
Al contrario, nella realtà delle piccole e medie imprese nazionali la fiducia è merce sufficientemente diffusa, che mantiene un suo mercato e il cui valore tende a salire proprio in periodi di crisi. Per queste imprese perdere un collaboratore significa in tantissimi casi privarsi delle competenze maturate in anni di relazione: ciò che è a rischio non è solo il saper fare, pur importantissimo, ma anche il vissuto di battaglie affrontate e vinte, di problemi risolti e, anche, di sconfitte aziendali elaborate insieme.
Questa esperienza comune è un cemento armato il cui potere antisismico è ben più forte di un rapporto mercantile o di regole burocratiche. Dietro l’impegno di molti imprenditori, costruito ovviamente sulla speranza in un maltempo passeggero, a non ricorrere alla cassa integrazione, a mantenere lo stesso stipendio invariato a fronte di minori ore lavorate oggi per recuperarle domani, a ricapitalizzare le imprese con risorse fresche e provenienti dalle proprie tasche non c’è etica, c’è interesse.
Essi riconoscono, e come non potrebbe essere così, che dietro i cospicui successi del passato ci sono le loro buone intuizioni strategiche, la loro elevata voglia di rischiare, ma anche il notevole contributo in energia, dedizione e impegno di tanti fra i loro collaboratori che oggi, in un momento di generale fatica, vanno tutelati anche a costo di salvaguardare, nel mucchio, lavativi e furbetti. È questa, infatti, la principale materia prima di cui dispongono, il solo capitale che non si deprezzi e da cui poter ripartire non appena possibile.
Hirschman individuava nell’uscita, nella voce e nella lealtà i modi con cui governare una relazione, anche d’affari: l’abbandono verso migliori lidi di mercato, la rivendicazione, spesso conflittuale, interna alle organizzazioni e la permanenza in un legame di fiducia reciproca. Le piccole e medie imprese nostrane da tanti anni, anche se spesso incoscientemente, hanno intrapreso con successo quest’ultima strada.