In un dialogo avvenuto in Giordania nell’ambito di un incontro del Comitato della rivista Oasis, un rappresentante di un Centro studi musulmano di Amman raccontava come nel suo Paese non si potesse assolutamente parlare di problemi relativi alla libertà religiosa. I cristiani, diceva, sono certo una minoranza, ma sono totalmente liberi di professare la propria fede. E aggiungeva che per questa situazione di chiara libertà non c’era nemmeno la necessità di tematizzare il “dialogo interreligioso”, dal momento che per lo Stato cristiani e musulmani erano uguali cittadini. Gli vennero poste due domande: la prima sull’ammissibilità del matrimonio “misto”, la seconda sulla liceità della conversione dall’Islam a un’altra fede. Rispondendo alla prima domanda l’interlocutore citò il caso della propria figlia, chiesta in sposa da un giovane cristiano. Egli chiamò dunque il futuro genero e gli disse che “doveva” convertirsi all’Islam, poiché altrimenti il matrimonio, che pure è normativamente laico, non sarebbe stato coerente con il principio che qualunque legge dello Stato non può contraddire la sharia (la quale non prevede un matrimonio religiosamente misto). E di fronte ai dubbi del giovane gli disse: ma in fondo che cosa te ne importa? tu dichiaralo e poi fa’ quello che vuoi. La seconda risposta: dal punto di vista dello Stato la conversione dall’Islam a un’altra fede è ammessa, ma l’esperienza dice che per non turbare l’ordine sociale, per evitare la pressione dell’ambiente che può essere disturbato da una tale scelta, è bene che il convertito vada a vivere altrove.

La conversazione fu illuminante. Per l’immediatezza e il “candore” con cui vennero date le risposte (sulle quali è facile ironizzare, ma totalmente inutile), e per la evidenza rivelatrice di una mentalità  diffusissima nel Paesi a maggioranza musulmana: una mentalità per nulla fondamentalista o estremista, anzi ovvia, borghese e persino moderata.

Mi è tornata in mente pensando al viaggio del Papa in Terra Santa, in vista del quale gli occhi di tutti sono puntati sul nodo israeliano-palestinese, eventualmente con l’aggiunta da parte dei più attenti dell’annosissimo problema dell’Accordo tra Vaticano e Israele, tuttora non raggiunto (ed è piuttosto pazzesco). Però il viaggio comincia domani, ma solo lunedì l’aereo atterrerà a Tel Aviv: prima c’è la Giordania, dove sono previsti ben sette discorsi oltre a omelie e interventi brevi. E non sarà per nulla un “prologo” di cerimonie e saluti di circostanza. La Giordania è in prima linea su tanti fronti: nel mondo arabo, nel rapporto tra Islam e Cristianesimo (da lì venne l’impulso della celebre lettera dei 138), nel rapporto tra gli Islam, nella lotta al terrorismo, nel complessissimo equilibrio microregionale Siria-Egitto-Libano e naturalmente in tutta la storia tragica della guerra dei sessanta anni tra gli arabi e gli israeliani, nella quale essa stessa ha preso parte più volte (’48, ’67, ’73) prima di arrivare alla pace con Israele, pace che appare piuttosto stabile. Che la posizione del piccolo regno hashemita sia delicata lo fa capire il ritorno negli ambienti governativi e militari israeliani della vecchia teoria secondo la quale “uno Stato palestinese già c’è ed è la Giordania”. Teoria che negli stessi ambienti si accompagna pericolosamente alla critica del principio dei due Stati (prontamente rilanciata in Italia dallo schieramento progovernativo israeliano): un insieme filosofico che preoccupa la diplomazia vaticana.

Dunque, Benedetto XVI inizierà a vivere la Terra Santa secondo una prospettiva che non è quella ovvia e usuale della madre di tutte le questioni internazionali (o quasi), ma piuttosto quella di una piccola cristianità molto rispettata ma non per questo serena, che vive in un piccolo Paese molto rispettato ma non per questo sereno. Una situazione cruciale per tanti aspetti, inclusa quella mentalità comune in tutto il mondo arabo.