Per alcuni meritocrazia e proprietà familiare delle imprese risultano essere compagni di viaggio incompatibili. Lo stesso Roger Abravanel, di cui abbiamo riportato settimana scorsa le opinioni circa le dimensioni delle aziende nostrane, ha idee chiare anche su questo argomento. «Le imprese italiane avranno bisogno della migliore leadership e management possibile: questo però non sarà possibile (la ripetizione è dell’autore) finché in Italia le imprese saranno al servizio della famiglia e non viceversa. Il cammino verso una Confindustria che guidi e stimoli gli imprenditori italiani a meritarsi la proprietà delle proprie imprese e non sia solo una potente lobby contro la concorrenza e il libero mercato sembra finalmente iniziato» (Corriere della sera, 3 giugno).

Ha senso tornare su questo articolo solo per segnalare che forse, e giustamente, il cammino si è già arenato: nell’annuale convegno dei Giovani di Confindustria tenutosi lo scorso fine settimana a Santa Margherita è stata presentata una ricerca dell’università Luiss, l’università di Confindustria, in cui, tra l’altro, si afferma che il 67,9% degli imprenditori italiani è favorevole a mantenere la proprietà e la gestione dell’azienda all’interno della famiglia, mentre solo per il 17,9% è preferibile fare ricorso a manager esterni mantenendo la proprietà.

Ancora una volta occorre ristabilire le giuste proporzioni tra idee e realtà, affinché le prime non si trasformino in pregiudizi e ideologia. Un motivo per cui il nostro paese sta subendo in misura minore rispetto ad altri gli effetti della crisi che attraversa tutto il mondo è da ricercarsi proprio in quella proprietà familiare delle imprese che quasi naturalmente si concretizza in una gestione delle stesse più orientata alla continuità, al lungo periodo e anche, certo, alla successione generazionale.

Tutto ciò comporta un tasso di comportamento speculativo di molto inferiore a quello riscontrabile nelle public company manageriali attente per definizione a ogni oscillazione borsistica, a incrementare i propri ritorni economici sottoforma di stock options, ad abbandonare la nave ai primi scricchiolii. Qui prevale, con tutte le eccezioni del caso, la logica del breve periodo e della finanziarizzazione dell’economia, là, con altrettante eccezioni, il cognome è spesso ragione sociale dell’impresa, il collegamento con il territorio è molto forte, si nasce manifatturieri e lo si rimane, la borsa è lontana e in taluni casi utilizzata, ma solo come mezzo.

Ciò non significa, ovviamente, che le nostre imprese, anche quelle più piccole, non possano avere bisogno di contributi manageriali e specialistici esterni alla proprietà, ma che questo nulla ha a che vedere con la meritocrazia. Che la finanza debba servire all’impresa e non viceversa lo abbiamo imparato a nostre spese negli scorsi mesi, forse è necessario ribadire che lo stesso rapporto deve esistere tra aziende, consulenti e manager: la prima è in grado di assicurare lavoro ai secondi, avendone bisogno, ma solo se questi sanno adattare le proprie competenze alle sue necessità.