La partita che l’Europa non può perdere

È in corso una imponente sfida geoeconomica, e dunque anche strategica, tra Stati Uniti e Cina che ha in palio l’America Latina. Eppure un ruolo potrebbe averlo anche l’Ue

Al di sotto della superficie, dove si vedono le grandi dispute internazionali sul Medio Oriente e si assiste alla deriva paurosa del pilastro Pakistan, è in corso una imponente sfida geoeconomica, e dunque anche strategica, tra Stati Uniti e Cina che ha in palio l’America Latina.

 

Attraverso l’alleanza con il Messico e le prudenti aperture su Cuba, Washington cerca disperatamente di recuperare credibilità e amicizia in un mondo dove gli errori del passato (appoggio alle dittature, potere smisurato delle multinazionali, la teoria dell’America Latina come “giardino di casa”) si connettono con il radicalismo “anti-yankee” dei vari Chavez, Morales, Correa, Kirchner (quello di Lula è più sommesso). Personaggi che ai nostri occhi possono sembrare folkloristici, ma ciò che dicono e quel che fanno passa assai velocemente dal teatro mediatico alla società reale.

Intanto, come sta facendo in Africa, Pechino mette sul tavolo dei presidenti soldi e poi ancora soldi: la fame di denaro da iniettare nelle infrastrutture e per combattere le “sacche” di miseria (“sacche” da decine e decine di milioni di persone), per stare alle necessità ufficiali, è sempre molto acuta. E in qualche mese la Cina ha raggiunto accordi da miliardi di dollari con Argentina, Brasile, Ecuador e Venezuela e certo non si fermerà lì.

Ma intanto non si può non registrare lo strano fenomeno che attraversa le società latinoamericane. Esse non hanno occhi che per l’Europa, del tutto ignorata nella grande partita triangolare in corso. E anche se l’Europa si è chiamata fuori dal gioco, anche se all’Europa non interessa l’America Latina, anche se nessun leader latinoamericano pare guardare in direzione del’Atlantico, nelle città del subcontinente non si sente altro che Europa, non si discorre che di Europa.

I giovani di Santiago non sognano un master a New York ma a Madrid (“la nostra madrepatria” ti dicono saltando d’un passo le secolari polemiche circa colonizzati e colonizzatori), e i favelados brasiliani scorgono l’Italia dietro le scuole pulite dove possono finalmente mandare i loro figli. E ad Asuncion (Paraguay) si riscopre il gigantesco valore delle Riduzioni gesuitiche del XVII secolo per cambiare il presente. Non solo, sembrerà incredibile ma persino l’Unione Europea gode di ammirazione quando si parla con imprenditori e politici “di base”.

Una dicotomia strana, ma evidente, tra due sfere, tra due dinamiche, altrettanto potenti e reali: la partita degli equilibri mondiali e la realtà di quel che si vive e si pensa. Solo che la seconda dispone di molte meno armi politiche e di un discorso pubblico molto più flebile. Molti Paesi dell’America Latina stanno per entrare nel calendario delle celebrazioni dei bicentenari dell’indipendenza. Come è ovvio immaginarsi, sarà un profluvio di retorica, di bandiere, di orgoglio. Ma forse anche la possibilità di aprire un nuovo capitolo di rapporti con l’Europa. Che dipende in gran parte da quest’ultima.

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