Recentemente padre Michel Cuypers, tra i massimi studiosi del Corano, è stato in Iran, dove anni fa aveva vissuto a lungo. E’ tornato da Tehran stupefatto. Descrive una società cambiata, vitale, istruita, curiosa, aperta al massimo grado di possibilità per un mondo che dall’alto resta governato dagli ayatollah e dal basso dalle varie tipologie di guardie scelte. Analfabetismo cancellato, editori e scienziati in piena attività, studentesse in netta maggioranza all’università, nell’arte e in generale nella cultura un certo livello di libertà espressiva è percepibile con evidenza (non accade così nel campo religioso, dove la tolleranza e invece  piuttosto bassa).

Il tema posto dagli eventi di queste settimane è che il punto di equilibrio tra un potere autofondato sulla Tradizione e una élite sociale affamata di innovazioni appare superato senza aver raggiunto una nuova più elevata quota. I due mondi avrebbero convissuto in modo parallelo, limitando i contatti all’indispensabile e lasciandosi in qualche modo indisturbati ognuno nel suo territorio: l’area del comando e l’area della vita quotidiana. Ma la presidenza Ahmadinejad avrebbe passato il segno troppe volte e molta parte di quella società che alle scorse elezioni non era andata a votare seguendo il consiglio della premio Nobel Shirin Ebadi, questa volta si sarebbe convinta a pesare e a pesarsi di più. Si sentiva anzi incoraggiata dal clima positivo delle settimane prima delle elezioni: una sfida politica piuttosto libera e aperta, nella quale l’Iran si sarebbe serenamente ritrovato nel classico stereotipo riformisti contro conservatori (oppure moderati contro fondamentalisti), che più o meno va bene a tutti. E così assieme al voto è stato tratto anche il dado. Risultati forse deludenti e brogli hanno fatto il resto.

Ma gli studiosi convenuti in questi giorni a Venezia per l’annuale riunione della Fondazione Oasis (presente anche il cardinale Tauran) avvertono che nel mondo islamico il conflitto tradizione-innovazione non è riducibile all’occidentale binomio vecchio-nuovo, e raramente percorre le strade a noi ben conosciute. E aggiungono che tali  dinamiche differenti riguardano tutti “gli” Islam, quelli delle minoranze europee come quelli arabi del Medio Oriente e quelli più “meticci” dell’Asia e dell’Africa sub sahariana. Per stare dalle nostre parti, negli Stati Uniti si può parlare di “una nuova generazione di musulmani che sta mettendo in discussione l’apologetica e il letteralismo islamici” e in Francia si fa strada “un Islam libero da influssi stranieri, indipendente politicamente e finanziariamente”, mentre le ricerche condotte in Italia tra le adolescenti musulmane dimostrano “una posizione ben chiara e precisa orientata ad una maggiore autonomia delle decisioni”.

La ragguardevole mole di ricerche e analisi proposte nel summit internazionale (dedicato al tema della tradizione) è il frutto di studiosi, ricercatori e testimoni di ogni parte del mondo e dimostra come nell’Islam contemporaneo, al di là dell’immagine ricavata dalle cronache correnti e dai pregiudizi, siano all’opera processi di grande rilievo (che intanto vanno riconosciuti, il che non significa per forza apprezzamento). E così, anche nell’Iran dei pasdaran dove vige la pena di morte, la tradizione possiede caratteri moderni, se non postmoderni, in rapporto alla modernità ovvia e ordinaria dei tempi dello Scià. Essi includono il business dell’energia e le infrastrutture, l’assistenza sociale e il welfare, la poesia e il padiglione d’arte alla Biennale, geopolitica e influenze internazionali, forme democratiche e un involucro religioso adesivo e iperrealista, università efficienti e donne in ascesa. E’ quel che si è visto nelle strade di Tehran.