In Brasile 53 milioni di persone vivono nelle favelas. Di questa massa immensa, più o meno come se gli italiani vivessero tra i rifiuti di Napoli (prima) e Palermo (ora), ci sono seicento famiglie che vivono nella favela del livello più infimo e brutale. Infatti tra le favelas c’è una gerarchia di qualità, data dal tipo di costruzione (muratura, legno, latta, ecc.), dalla localizzazione, dalle strade e così via.

Le palafitte di Salvador de Bahia stanno sicuramente all’ultimo posto. Poggiano sulla fanghiglia intrisa di spazzatura e liquami, si cammina su passerelle malferme per infilarsi nelle “case”, a volte anche di tre vani, esposte a ogni vento, bufera, odore, roditore, scarafaggio. Capita anche che qualcuno cada “di sotto”, rischiando di morire trafitto dai pali anneriti che spuntano dal fondo (immagini spettrali, degne delle fantasie malate dei creatori di film horror), o al minimo beccandosi la leptospirosi.

Seicento nuclei familiari, forse meno, “abitano” ancora sulle ultime palafitte di Salvador de Bahia. Sono l’ultimo gruppo di un processo iniziato nel 1993, quando decine e decine di migliaia di famiglie formavano la più grande favela su palafitte al mondo. L’esodo verso la terraferma è stato lungo e accidentato, ha dovuto superare tortuosità burocratiche e complessità culturali, poteri forti e deboli, è dovuto crescere dai piccoli ai grandi numeri, e anche per tutte queste ragioni è indicato nel mondo come una delle esperienze di maggiore riuscita nel campo della cooperazione allo sviluppo, al punto che lo si vorrebbe esportare in Africa.

Ma quel che è più grande nel progetto non è l’aspetto edilizio (anzi, puntando su questo lo Stato in un primo momento aveva fallito) ma il pazientissimo lavoro sulla tenuta e sulla crescita sociale delle comunità che via via lasciavano le palafitte. Un impegno enorme, capillare, esposto a mille fragilità, destinato a non essere mai terminato, portato avanti giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Chi ha tirato fuori dal fango (eufemismo) persone come Zinelda, che oggi fa la cuoca all’asilo “Don Giussani”, ed Elismar che ha studiato e insegna al Centro di formazione professionale, è stato corresponsabile di un vero miracolo. E così è andata: oggi si può vedere tutto, tra l’area di Alagados, e Novos Alagados. La straordinaria riuscita e anche il non compiuto, il buco nero di quelle famiglie in attesa che i vincitori delle ultime elezioni, due anni fa, rimettano in moto il meccanismo della salvezza dalla palafitta. Tutto il resto è pronto, mancano solo loro, gli atti dei nuovi governanti.

Ma seicento famiglie o giù di lì non hanno peso elettorale, sono un nulla, una entità trascurabile dal sindaco della città, dal governatore dello Stato, dal presidente Lula. Il quale la scorsa settimana era proprio a Salvador de Bahia per un vertice con il presidente venezuelano Hugo Chavez. Hanno parlato di petrolio, naturalmente, e di politica latinoamericana. Sarebbe bastato un suo gesto, forse anche un’alzata di sopracciglio, e le ultime palafitte sarebbero sparite: è vero, il fatto in sé sarebbe stato politicamente irrisorio ma Lula avrebbe accolto Chavez in una città senza più la favela dell’ultimo livello. Un punto a favore dell’immagine, se non dell’umanità. Eppure non l’ha fatto. Perché? Che cosa ci vuole per quest’ultimo passo?

Ora, tutto questo ha a che fare con le imminenti elezioni che io definisco “per l’Europa di Mario Mauro”. Mi spiego: chi ha lavorato nella baia delle palafitte ottenendo il riconoscimento della Banca Mondiale e della Farnesina sono quelli dell’Avsi; l’Avsi opera anche con i fondi dell’Unione Europea; se i discorsi che ha fatto Mario Mauro in campagna elettorale saranno premiati dal voto, Avsi, come altri soggetti della società civile europea, se ne avvantaggeranno.

Perciò in conclusione, se vogliamo aiutare quelli dell’Avsi e come l’Avsi, se vogliamo far vincere una certa idea dello sviluppo, se vogliamo strattonare per la giacca quelli che possono cancellare la vergogna delle ultime palafitte di Salvador, riscuotendoli dalla “distrazione”, è bene puntare su Mario Mauro.