«Sulla crescita è stato auspicato un ruolo determinante dell’Italia nei settori chiave del prossimo futuro, a cominciare dall’ambiente ed è stato finalmente chiarito che per l’economia italiana il nanismo delle nostre imprese non è un punto di forza ma una debolezza. L’Italia è un paese di piccole e medie imprese non perché questo fa parte di un Dna vincente della nostra economia, ma perché in Italia le imprese piccole (presenti anche negli altri Paesi) non crescono. In Italia», “ Piccolo è (purtroppo ancora) bello”. Parole e musica di Roger Abravanel, ex Mc Kinsey, sul Corriere del 3 giugno scorso.

L’idea che la dimensione delle imprese debba essere una variabile esogena alle specificità della singola azienda è veramente dura a morire. L’operazione è sempre la stessa: invece di riconoscere la peculiarità di ciò che funziona ed è dunque positivo si preferisce, anche per interessi di bottega, imporre alla realtà un proprio schema. Nessuno, tra questi grandi consulenti, che ci dica come fare in pochi anni ciò che non si è realizzato in decenni.

E se per arrivare ad avere imprese di medio-grande dimensione occorrono invece più generazioni forse, stante le attuali vicissitudini economiche, i problemi da affrontare con maggiore urgenza sono altri. Quando poi anche lo studente del primo anno di economia sa che le grandi imprese, pubbliche e private, le avevamo alla fine degli anni Cinquanta e oggi la loro presenza è andata progressivamente riducendosi, forse sarebbe meglio impiegare tempo ed energie ad approfondire le motivazioni storiche e culturali di questo fenomeno piuttosto che vagheggiare scenari utopistici oltrechè inutili.

Per l’impresa non esiste una dimensione aziendale di riferimento sganciata dalla specifica combinazione strategica adottata: diverse imprese possono essere di successo con dimensioni di fatturato, di occupati, di numero di capannoni, di quote di mercato molto diverse tra di loro: Fiat e Ferrari ne rappresentano oggi un buon esempio. L’impresa di successo non perseguel’aumento dimensionale fine a sé stesso nell’imitazione di modelli industriali diversi dal nostro, ma se questo è strettamente correlato al mantenimento nel lungo periodo di condizioni di competitività efficace.

Essa non rimane piccola per difendere modalità di azione, mentalità e privilegi necessariamente di breve periodo, ma sa cogliere le eventuali opportunità strategiche correlate alla minore dimensione non snaturando la propria modalità d’azione ed esaltandone le caratteristiche. Tale impresa sa, infine, cogliere nelle molteplici possibilità di realizzare accordi interaziendali, più o meno strutturati, di breve o di lungo periodo, l’occasione di diventare grande restando piccola.

Non c’è un valore della dimensione a priori, solo una sua strumentalità, come per tutto ciò che attiene all’organizzazione aziendale, rispetto al raggiungimento delle finalità di istituto: non c’è dunque una dimensione aziendale positiva a priori: è positiva quella dimensione che permette all’impresa di competere con successo nel mercato di riferimento. Non è più tempo di “piccolo è bello”, non sarà mai tempo di “grande è necessario”.