La scorsa settimana ho iniziato il mio editoriale su Twitter confessando di non saper quasi nulla su come funziona. Ne ho dovuto scrivere perché ha completamente riempito i media americani per giorni e giorni. Questa settimana mi succede la stessa cosa, anche se non ha niente a che vedere con Twitter: questa volta l’argomento che ha dominato in modo assoluto i media negli Stati Uniti è Michael Jackson. Sfortunatamente ne so di Michael Jackson quanto ne so di Twitter (mi chiedo se forse i due soggetti non siano alla fine collegati, entrambi tesi a sfuggire i limiti della biologia, entrambi tentativi di fuggire da una realtà sentita come ostile alla coscienza di se stessi).
Ad ogni modo, per più di metà della settimana scorsa, non è parso esistere per i nostri media niente di più importante che le reazioni alla morte di Michael Jackson. Per quelli che, come me, vedevano in lui nient’altro che un artista musicalmente dotato, anche se un po’ strano, guardando la scorsa settimana la televisione è stato come scoprire un altro pianeta. L’altro giorno, con le notizie sul colpo di Stato in Honduras, è sembrato che forse i media avrebbero smesso di scrutare nella vita pubblica e privata di Jackson per occuparsi di quanto altro stava succedendo in giro per il mondo, ma con le notizie sui funerali la jacksonmania ha ripreso rapidamente il sopravvento.
Michael Jackson era una superstar globale e lo dimostrano le reazioni in tutto il mondo alla sua morte. Tuttavia, penso che le reazioni qui in America siano state diverse da quelle negli altri paesi. Secondo Newsweek Magazine, «Jackson ha scelto- anche con calcolo – di rifare se stesso come un sogno americano di innocenza e desiderio di essere amati». In realtà, Jackson «era essenzialmente uno di quei “puri prodotti americani” che, come scriveva nel 1923 William Carlos Williams “finiscono per diventare matti”».
La gioventù “postmoderna” americana ha vita difficile nel cercare di affermare la sua postmodernità. Perché il problema è trasformare la realtà, invece di semplicemente rifuggirne con un cinico relativismo assolutista. Basti pensare in quanti modi la realtà impatta sulla vita americana: le realtà della razza, del fideismo protestante, del genere, del forte senso di appartenenza alla famiglia, così come la opposta esaltazione dell’individualismo e l’attrazione per il successo economico. Il sogno americano è di mantenere tutto questo e contemporaneamente prescinderne. Il solo modo per farlo è creando un “io” che è tutte queste cose nello stesso tempo. Michael Jackson ne era un’icona: contemporaneamente vittima e carnefice, bianco e nero, profondamente religioso e laicista, maschio e femmina, padre e egoisticamente libero da ogni relazione impegnativa, povero e ultraricco, tutto nello stesso tempo.
Chi era il vero Michael Jackson? É rimasto qualcosa di lui dentro questo strano essere umano che ha, al contempo, costruito e sofferto la sua trasformazione in una postmoderna icona americana? Per chi di noi crede in Cristo, il vero Michael Jackson non potrà mai essere distrutto e lo affidiamo alla misericordia di Dio. E, di fronte a Jackson, icona di un dio postmoderno americano, noi preghiamo per coloro che stanno ancora cercando il vero Uno.