L’enciclica che ribalta l’etica dei banchieri

Il rischio di fermarsi ai commenti sfuggendo a una lettura attenta e complessiva dell'enciclica di Benedetto XVI è concreto. GRAZIANO TARANTINI lo spiega ai lettori de IlSussidiario.net

Numerosi sono stati in questi giorni i commenti sull’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate. Fra questi ho apprezzato soprattutto quello di Emma Marcegaglia sul Sole 24 Ore per l’intelligenza delle considerazioni. Il rischio però è quello di fermarsi ai commenti sfuggendo a una lettura attenta e complessiva. E soprattutto a un paragone leale fra la propria esperienza e quanto suggerisce il testo. L’invito, specie a chi è impegnato nell’impresa e nell’economia, non può che essere perciò a leggerla tutta. Letture parziali infatti finiscono inevitabilmente con l’esaltare un particolare in cui ci si riconosce o si riscontra una corrispondenza col proprio punto di vista.

I temi del mercato, del modo di intendere l’impresa, della distribuzione della ricchezza, del ruolo della finanza, sono tutti puntualmente analizzati da Benedetto XVI. Ma tali aspetti e l’analisi originale che ne fa il Papa rischiano di non essere compresi nella loro integralità e nel loro vero significato se si prescinde dalla prima parte dell’enciclica dove si trovano i fondamenti di tutto il resto. Qui infatti si sottolinea come “talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società”, mentre, al contrario, “la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta”. Questa è la radice del perché bisogna cambiare strada. Soprattutto va evitato l’errore di pensare che lì ci siano la dottrina, i principi, mentre quelle che importano sono le conseguenze pratiche. Non è così, il disegno che esce dalla Caritas in veritate è un tutt’uno, dove ogni elemento è collegato.

Ciò che colpisce è proprio questa visione unitaria della realtà. Sarebbe altrettanto sbagliato affermare che ciò riguardi solo chi crede, mentre potrebbero semmai registrarsi coincidenze di vedute su singoli temi come ad esempio la concezione del mercato. Ritengo perciò che l’intera enciclica (e non soltanto qualche parte isolata dal contesto) sia interessante per tutti. Benedetto XVI ci dà dimostrazione di una maggiore capacità di lettura del mondo contemporaneo, proprio oggi quando molti appaiono smarriti davanti alla crisi e al crollo di sistemi che sembravano perfetti. Ci offre una prospettiva che in questo momento probabilmente nessun altro è in grado di indicare. Ciò è frutto di una visione più ampia e profonda della realtà che è del tutto alla portata della ragione umana, credenti o non credenti che si sia. Ci dice chiaramente che bisogna cambiare rotta.

Certo avere la libertà di intraprendere la strada che ci viene indicata richiede coraggio e capacità di rinunciare a comode rendite di posizione. E l’uomo è disponibile a una rinuncia seria solo se intravvede una novità che è più interessante per se stesso e per tutti. Quando nel 1891 Leone XIII pubblicò la prima enciclica sociale, la Rerum Novarum, in Francia ci fu solo un imprenditore, Leon Harmel, che la prese sul serio trasformando radicalmente le sue officine di filatura e rendendole un modello di un nuovo modo di fare impresa. Don Giussani ha sempre osservato che se anche tanti altri avessero fatto come lui, l’Europa sarebbe stata diversa.

È un esempio per dire che quanto Benedetto XVI ci propone non riguarda genericamente il mondo o la società, ma è rivolto personalmente a ognuno di noi. In questo senso l’enciclica è un richiamo soprattutto ai cattolici ad accettare la sfida di un cambiamento radicale. Insomma una salutare ventata di aria nuova ad esempio in Italia dove, con una buona dose di ipocrisia, sotto l’etichetta di imprenditore o di banchiere cattolico per anni ci sono stati propinati grandi discorsi sull’etica, non avendo mai il coraggio di rischiare soluzioni innovative non appiattite sugli stereotipi del pensiero dominante che ci ha condotto al disastro di oggi.

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