Attualmente non esiste bersaglio più facile di un prete accusato di pedofilia. Ormai, dopo le diocesi americane, dopo l’Irlanda, dopo i film e le denunce planetarie si è diffuso un sospetto, un dubbio radicale. Non sarà che quel parroco, quell’insegnante di religione, quell’organizzatore di campeggi… Quelli con cui siamo cresciuti, quelli con cui crescono i nostri figli: non sappiamo se ci si può ancora fidare… Ormai quando si parla di chiesa e oratorio vediamo in tanti conoscenti e amici l’ombra dell’incertezza, di un moto di sfiducia. Occasioni di anticlericalismo vieto per alcuni, per altri di scetticismo dispiaciuto. E quando partono le accuse si diffonde l’inclinazione alla colpevolezza comunque.
Recentemente è scoppiato il caso di un celebre missionario, padre Renato Kizito Sesana (ne dava notizia il Corriere della Sera), in Kenya da moltissimi anni. Durante una sua assenza due suoi stretti collaboratori hanno diffuso voci di abusi sessuali, ottenendo immediata risonanza sui media, locali e non. Per il missionario è iniziata una storia che chissà come e quando finirà. In questo come in altri casi, ad esempio quello di don Conti a Roma (di cui si sono occupati con articoli “controcorrente” Gian Micalessin sul Giornale di domenica scorsa, Renato Farina su Libero e Chiara Rizzo su Tempi) gli ingredienti sono gli stessi: gli accusatori sono persone vicine o vicinissime al sacerdote, che è piuttosto famoso, magari impegnato in opere sociali; le accuse hanno una loro credibilità data la vicinanza dell’accusato con giovani e bambini; il caso esplode sugli organi di stampa, che tranne rare eccezioni amplificano e diffondono le accuse, rendendo automatica la coincidenza accusato-colpevole; si apre una fase processuale lunga e molto complessa nella quale le garanzie giuridiche per l’imputato, già devastato dalla più infamante delle presunte colpe, si mostrano fragilissime; si scatena il partito dei colpevolisti, che gode di un grande potere di interdizione e di pressione su politici e istituzioni; le autorità ecclesiastiche scelgono generalmente il silenzio.
Il caso del sacerdote Julio Grassi ha occupato a lungo le cronache argentine. Persona notissima, sicuramente non simpatica ai giornali e a qualche vescovo perché ambiziosa ed egocentrica, fondatore di un’opera di assistenza all’infanzia tra le più grandi di tutta l’Argentina, frequentatore trasversale di poteri e di potenti, nel 2002, dopo una clamorosa lite con gli autori di un programma televisivo che doveva sponsorizzare la sua opera, padre Grassi viene accusato di abusi da un giovane da lui accolto nel 1996 (particolare curioso: la denuncia avviene prima in un programma televisivo e dopo davanti al magistrato). Poco dopo si aggiunge un secondo accusatore, che poi ritratta, e nel 2006 un terzo, che risulterà attendibile solo in parte. La vicenda processuale iniziata nel 2004 è confusa e drammatica e mentre il clamore mediatico aumenta l’opera declina. Nel corso del primo dibattimento, terminato poche settimane fa, a oltre sette anni dalla prima rivelazione, vengono dimostrati come falsi 15 dei 17 fatti di abuso contestati. A questi due “superstiti” si deve la condanna di padre Grassi a quindici anni.
Ma la formula adottata dal tribunale è strana e foriera di polemiche: il sacerdote rimane libero, anche di frequentare con certe restrizioni la sua opera, fino a che la condanna non sia definitiva. Naturalmente gli avvocati pensano di “smontare” i fatti “superstiti” nei prossimi gradi di giudizio. Uno riguarda una data: l’accusatore ne ha indicata una con precisione, ma in quella data è stato dimostrato in che il padre non era nel luogo citato; l’accusatore ha poi detto che si trattava in realtà del giorno dopo e questo è bastato alla corte. Padre Grassi, intervistato a lungo da giornali e tv (a differenza che in Italia, dove di fatto l’accusato non ha diritto di parola) ha commentato che è molto difficile difendersi da una accusa di questo genere se i dati in essa contenuti sono vaghi o se addirittura continuano a cambiare. Argomentazione ragionevole, ma chi è disposto a usare la ragione quando è così semplice sbattere il mostro in galera (e in prima pagina)?