E’ tutto un moltiplicarsi di iniziative. Dopo le “imprese che resistono” è il turno dei “contadini del tessile”. Nella crisi l’individualismo lascia spazio all’iniziativa comune e i piccoli imprenditori abituati a muoversi sul mercato, con successo, in ordine sparso sono più propensi a mettersi insieme per fare sentire meglio la propria voce. Non dunque l’unità di azione gestionale, per esempio per aumentare le dimensioni medie dell’attività, ma sindacale per difendere la possibilità di continuare ad operare.
Mentre a Chianciano Terme Tremonti ed Epifani cercano nuove strade comuni per “fare assieme l’ultimo miglio per uscire dalla crisi” e Geithner, l’omologo statunitense di Tremonti, rilancia da oltreoceano segnali di ottimismo, i nostri piccoli imprenditori del tessile denunciano un nuovo vecchio nemico: la grande industria nazionale della moda e delle griffe che produce in Cina, Vietnam e Thailandia tranne poi vendere con l’etichetta “made in Italy”.
Chi si mobilita sono i possibili fornitori italiani di queste grandi aziende che, spesso, vendono ad esse i loro campionari poi fatti realizzare a basso costo all’estero. Ciò che richiedono è la tracciabilità del prodotto, dell’intera filiera che permette la realizzazione di un capo, sulla falsariga di quanto recentemente acquisito, da cui il termine di “contadini del tessile”, dal ministro Zaia con riferimento all’olio d’oliva.
Due considerazioni a sostegno dell’iniziativa. La prima: viviamo un passaggio storico in cui per le aziende italiane, di qualunque dimensione e settore, fare qualità, innovazione e servizio è modalità privilegiata per contrastare la concorrenza globale e presidiare da vincenti i mercati. Questi obiettivi si perseguono molto più facilmente riportando all’interno delle aziende il maggior numero possibile di lavorazioni e, laddove ciò non sia fattibile o conveniente, rinforzando e dando continuità nel tempo a rapporti con fornitori di qualità il più “vicini” possibili. Qualcuno addirittura accenna alla necessità di superare la dizione “made in Italy” verso un’ancora più stringente identificazione con la singola azienda produttrice, di certo nel prodotto acquistato dall’utilizzatore finale la qualità da garantire e da certificare è quella dell’intera filiera. La qualità del bottone di una camicia concorre evidentemente, insieme a tutte le altre componenti, alla qualità del prodotto finito ed è logico cercare che il fornitore di quel particolare sia all’altezza della qualità complessiva. Molte aziende italiane in questi momenti stanno proprio per tale motivo investendo energie e risorse a favore del rapporto con i propri fornitori: c’è chi si impegna in un momento di difficoltà a garantire gli acquisti per sostenere l’attività, chi valorizza la qualità dei fornitori con prezzi superiori alla media del mercato, chi decide di sostenere la loro azione anche partecipando direttamente con investimenti di capitale.
Dispiace, ed è la seconda e più breve considerazione, che ancora una volta tra queste imprese virtuose non ci siano innanzitutto le grandi imprese nazionali, che sembrerebbero invece più intente ai volumi e dunque ai costi. Se così fosse i loro naturali fornitori italiani si troverebbero a dover combattere su due fronti e qualcuno di loro potrebbe morire di fuoco amico, magari per mano di un collega di Confindustria o di altra associazione imprenditoriale.