La scorsa settimana si è scoperto che 75mila persone fisiche hanno dichiarato al fisco redditi pari o superiori alla somma di 200mila euro lordi. I dati sono quelli ufficiali, ma la sensazione è stata proprio quella di una scoperta. Solo 75mila. Gli abitanti di un quartiere di Roma, di una cittadina di provincia.

In Italia, ricorda sempre il ministro Tremonti, ci sono svariati milioni di Partite Iva. E un numero sterminato di professionisti: medici, avvocati, notai, consulenti, commercialisti. Se da quei 75mila togliamo i manager, i cui redditi per una ragione o per l’altra, sono più “certificabili”, ci si domanda che fine abbiano fatto quegli altri redditi “ricchi” e perché il nostro fisco, che tiene i fucili puntati sugli imprenditori di ogni dimensione e sui lavoratori dipendenti (è talmente facile), non riesca a trovarli. Non ci sono dubbi sull’esistenza di quei redditi. Basta dare un’occhiata per strada e contare le auto nuove da 50mila euro, o passeggiare per i moli di un porto turistico.

In un paese equilibrato e sano l’equità fiscale è un indice del bene comune. Certuni a destra ritengono che sia demagogia o populismo; per altri a sinistra è un tassello dell’ideologia statalista. Ipocrisie. Da una parte vogliono perpetuare scandalosi sistemi di privilegi, dall’altra schiacciare la persona e la sua libertà di azione. Il vertice di questa retorica è stato toccato dall’ex ministro Padoa Schioppa: le sue parole “le tasse sono bellissime” sono scolpite nella memoria dei tanti elettori che bocciarono sonoramente il governo Prodi.

Invece l’equità fiscale è un marker, uno dei tratti caratterizzanti l’insieme della nostra vita civile. Dice di quale idea di società pratichiamo, di quale responsabilità abbiamo in essa. Ma è uno dei casi in cui è decisivo il ruolo dello Stato, che deve garantire non solo le condizioni di base, ma favorire, senza interferire, tutto il processo formativo del bene comune: dalla persona alla famiglia, dalla famiglia alla comunità, dalla comunità alle associazioni e così via. Se il fisco è ingiusto, sproporzionato o selettivo, ne viene un danno generale e “culturale”, qualcosa che intacca la stessa concezione del vivere insieme. È l’altra faccia della società paralizzata dai particolarismi, dagli Ordini, dalle categorie, dalle varie caste, su cui si infrangono progetti e sogni di riforma.

Il citatissimo sociologo Zygmunt Baumann dice che viviamo nella società liquida, ma forse non si riferisce all’Italia, dove persino gli ex parlamentari sono riuniti in un sindacato che ne vuole perpetuare grottesche immunità e privilegi.

Il bene comune è faccenda delicata e oggettiva. Moltissimi ne blaterano, senza averne la minima idea. È di moda e fa tanto “responsabilità sociale” e talk show televisivo. Parlarne non costa nulla, mentre ai pochi che hanno davvero a cuore la res publica vengono saccheggiate le idee e, (metaforicamente) mozzate le mani (da una poesia di C. Milosz).

P.S. Lo scorso editoriale sulle ali abbassate dell’Alitalia ha riscosso una certa attenzione. Per ragioni di equità, appunto, devo citare due recentissimi viaggi in treno, il pompatissimo e costoso Alta Velocità sulla tratta Milano-Roma. La penultima volta è stato “erroneamente istradato sulla linea lenta” all’altezza di Orte: mezz’ora di ritardo. L’ultima si è fermato a Bologna “causa guasto al segnale elettrico”, con la mezz’ora di ritardo inevitabile. Naturalmente le Ferrovie si scusano per i disagi, secondo la formula imparata dall’Alitalia.

Propongo a ilsussidiario.net di aprire una sezione intitolata: “2009, avventure dei viaggiatori nell’Italia del G8”. Lettori e pubblicità assicurati.