Lascio la parola, in questo inizio del periodo di ferie, a Blaise Pascal. Scrive nei Pensieri: «Tutta l’infelicità degli uomini ha una sola provenienza, ossia di non saper restare tranquilli in una stanza. Un uomo che abbia mezzi sufficienti per vivere, se sapesse stare con piacere a casa propria, non ne uscirebbe per andare sul mare. E non si cercano le conversazioni e lo svago dei giochi per altro, che perché non si riesce a restare a casa propria con piacere». Ma il grande filosofo e matematico non si ferma qui: «Considerando la cosa più da vicino e volendo, dopo trovata la causa di tutti i nostri malanni, scoprirne anche le ragioni, ho trovato che ve n’è una realissima, consistente nell’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale e tanto misera che nulla ci può consolare allorquando la consideriamo da vicino».

Poco prima aveva detto: «Gli uomini, non avendo potuto sanare la morte, la miseria, l’ignoranza, per rendersi felici hanno escogitato di non pensaci». È la grande intuizione pascaliana del divertissement. Che non è lo svago sano e rigenerante, ma quel togliere l’attenzione dalla direzione giusta (di-vertere) che si potrebbe adeguatamente tradurre con: distrazione. Per spiegarsi Pascal si immagina un re, cioè il massimo di successo e di condizioni favorevoli che allora si potesse desiderare. Egli è tuttavia assalito da preoccupazioni «per cui, senza ciò che si chiama distrazione, eccolo infelice, e più infelice dell’ultimo dei suoi sudditi». Perciò è «attorniato da gente che non pensa ad altro che a distrarlo e a impedirgli di pesare a se stesso»; come nel grande sforzo del divertimento organizzato.

«Gli uomini amano tanto il chiasso e il trambusto» e «il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile». Distrarsi: «questo è tutto ciò che hanno saputo inventare per rendersi felici». È una dinamica che riguarda tutta l’esistenza: «Gli uomini suppongono che, ottenuta quella carica, godranno poi di una piacevole quiete; e non percepiscono la natura insaziabile della loro cupidigia. Credono di cercare sinceramente la quiete, mentre in realtà cercano soltanto l’agitazione. Un segreto istinto, riflesso della percezione delle loro continue miserie, li spinge a cercare lo svago e l’occupazione fuori di loro; mentre un altro istinto segreto, residuo della grandezza della nostra natura primitiva, fa conoscere loro che la felicità vera non si trova che nella quiete, non nel trambusto. Da questi due istinti opposti si forma in essi un progetto confuso, nascosto alla loro vista nel fondo dell’anima, che li spinge a cercare la quiete mediante l’agitazione e a immaginare sempre che la soddisfazione che loro manca, arriverà se, superando qualche difficoltà che pur prevedono, potranno aprirsi per questa via la porta della quiete. Così scorre tutta la vita».

Qualche pagina dopo: «Cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza, se non che un tempo ci fu nell’uomo una vera felicità, di cui ora gli restano soltanto il segno e la traccia del tutto vuota, che egli tenta invano di riempire con tutto quanto lo circonda, chiedendo alle cose assenti quanto non ottiene dalle presenti? Aiuto di cui sono tutte incapaci, perché questo abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito».