La questione meridionale sembra destinata a costituire il tormentone estivo di quest’anno. La scintilla che ha fatto divampare il caso è stata la minaccia del partito del Sud, quello che l’ha alimentato sono stati una serie di fatti e di dati che poi, uno dopo l’altro, sono fioccati sulla questione.

Così in un recente editoriale sul Corriere della Sera, titolato Malumori d’Italia, Di Vico, giustamente ha affermato che l’esistenza di due Italie “non è un rischio, è una realtà”. Riportava i dati del residuo fiscale, positivo per gli abitanti delle regioni meridionali (guadagnano 2.700 euro), negativo per quelli del Nord che danno allo Stato molto meno di quanto ricevono (perdono 2.220 euro a persona), metteva poi in evidenza quelle differenze di potere di acquisto per cui al Nord, a parità di stipendio, la vita, secondo l’indagine di Banca d’Italia, costa un sedici per cento in più. Anche Alesina è intervenuto sulla questione, evidenziando come nel meridione si sia radicata ormai una mentalità che rifugge dalla sfida imprenditoriale e cerca tendenzialmente nel pubblico impiego la soluzione dei problemi. Poi ci sono stati i dati degli esami di maturità che hanno mostrato che i pieni voti in Puglia sono stati il doppio rispetto a quelli della Lombardia. Infine è emerso che nella sanità il debito accumulato dalle quattro regioni meridionali commissariate (il commissariamento di Campania e Molise risale a pochi giorni fa) ammonta a 27 miliardi di euro, cioè una cifra che viene a costare più di 500 euro a italiano, neonato compreso. Intanto la cronaca portava alla luce casi come quello dell’ospedale di Agrigento, costato a suo tempo circa cento miliardi di lire e probabilmente tutto da rifare: era stato utilizzato un cemento pieno di sabbia che rende ora pericolante la struttura.



I fattori che hanno condotto a questa drammatica situazione sono certamente complessi, però ve ne sono alcuni che hanno avuto un peso preponderante. Innanzitutto c’è stato un difetto d’origine nel regionalismo italiano, che fin dall’inizio della sua travagliata storia (le Regioni, che secondo la Costituzione dovevano essere istituite nel 1949, iniziarono a funzionare solo nel 1971) è stato sempre improntato al criterio dell’uniformità. Il rischio dell’autonomia è stato cioè sempre giocato sulla base delle realtà più arretrata e così le Regioni più avanzate sono state frenate a danno di tutto il Paese. Quel regionalismo dell’uniformità, soprattutto non ha prodotto l’eguaglianza che prometteva: dopo più di cinquant’anni di ostinata applicazione ha generato solo egualitarismo e la realtà, oggi, dell’esistenza di due Italie dimostra drammaticamente come quello sia stato un metodo profondamente sbagliato per cercare di unificare le condizioni di vita nel Paese.



Occorre non perdere la lezione che emerge dall’esperienza di questi cinquant’anni di uniformità e di assistenzialismo. Servono quindi soluzioni nuove, come ad esempio quella di un sistema bancario del Sud cui sta lavorando Tremonti coinvolgendo le banche di credito cooperativo, perché è vero che spesso la raccolta del Sud finisce in impieghi al Nord. Al contrario, la prospettiva di un partito del Sud destinato a difendere il vecchio metodo dell’uniformità e dell’assistenzialismo non sarebbe certamente un rimedio, quanto piuttosto un fattore che concorrerebbe ad aggravare la malattia che affligge le realtà meridionali.



E’ nella sfida della responsabilità che il meridione può tornare a fare fiorire i propri talenti, ma occorre una classe politica che sia all’altezza di questa sfida. Il federalismo fiscale, la cui attuazione partirà nell’autunno per proseguire per i prossimi due anni, rappresenta la grande possibilità per ricostruire le condizioni di una gestione responsabile della cosa pubblica. Scopo del federalismo fiscale è, infatti, quello di mettere nelle condizioni, o meglio in un certo senso “costringere”, chi ha la responsabilità politica di far funzionare al massimo la “macchina” istituzionale che amministra. In un contesto di federalismo fiscale non sarà più indifferente, per l’impatto sui propri elettori, la gestione virtuosa o quella non virtuosa: gli elettori saranno – molto di più rispetto a oggi – nelle condizioni di misurare col voto chi crea situazioni come quelle dei rifiuti di Napoli o invece incomincia a utilizzare i poteri regionali per semplificare le normative per le imprese, per de-burocratizzare, per valorizzare le risorse della società civile, per risanare i bilanci della sanità. Ci sarà molta più visibilità e possibilità di giudicare l’amministrazione virtuosa e distinguerla da quella inefficiente. Una recente indagine del Sole24Ore ha messo in evidenza come oggi il gettito delle imposte vada per la metà a Regioni e Enti locali: 1800 euro pro capite li tiene lo Stato, 1848 vanno al comparto Regioni ed enti locali. Il potere di spesa per circa la metà è stato decentrato, ma il potere impositivo no. Il sistema è rimasto fondato sulla finanza derivata. Le entrate proprie di Regioni ed Enti locali, Giarda le ha definite “entità metafisiche”. Così si è trasformato il principio no taxation without representation in una specie di mostro giuridico: representation without taxation. Il che non rende un buon servizio né alla democrazia, né alla responsabilità. Il federalismo fiscale è quindi un’occasione per una rivincita della democrazia e la responsabilità. Soprattutto al Sud.