Nei primi sei mesi del 2009 32 mila giovani sotto i trent’anni hanno iniziato un’attività imprenditoriale. In tutt’Italia non solo al Nord. Che la crisi stimolasse l’assunzione di responsabilità in prima persona, almeno in economia e se non altro per mancanza di concrete alternative occupazionali, erano in molti ad affermarlo, ma tra il dire e il fare molto ce ne corre. Invece, in questo caso, no.

I dati elaborati dall’ufficio studi della Camera di Commercio di Monza e Brianza, e presentati la scorsa settimana, dicono anche che 200 mila imprese oggi nel nostro paese, realisticamente il 5% del totale, hanno titolari della stessa giovane età. Ovviamente nulla è possibile dire del futuro di queste aziende, ma il dato è di per sé positivo, al di là delle osservazioni di taluni commentatori, perché segnala la tenuta intergenerazionale dello spirito imprenditoriale.

Non c’è un “di padre in figlio” solo all’interno dell’azienda di proprietà familiare, ma nel più vasto mondo dell’imprenditorialità: ci si continua a tramandare anche la voglia di fare impresa. Questo fatto è ancora più importante perché, in parallelo, un’altra mentalità, quella del posto fisso, dunque tendenzialmente pubblico e a vita, continua ad essere ben radicata in una parte di giovani, probabilmente maggioritaria.

Il confronto tra queste due posizioni, che oggi è trasversale al paese e non riguarda dunque certe zone territoriali o determinate fasce sociali, è antico e la crisi sembra non averlo sostanzialmente intaccato. La voglia di fare senza un ritorno economico certo verso il fare senza voglia, senza passione, ma con un regolare stipendio a fine mese. Prima, con tutte le dovute eccezioni, era un confronto tra privato e pubblico, oggi non più o non solo: con un settore privato sempre più precario sembra di poter dire che il confine è tra imprenditori, partite iva, lavoratori autonomi, da una parte, e lavoratori dipendenti, più o meno a tempo indeterminato, dall’altra.

Le implicazioni di questo confronto in atto nel paese sono molte e strettamente collegate con il nostro futuro, non solo economico: interessante da questo punto di vista l’editoriale di Piero Ostellino (La solitudine dei “piccoli”) sul Corriere di venerdì 21 agosto. Tuttavia è fondamentale per ora soprattutto ribadire la peculiarità nazionale che in tale confronto abbiamo: il 26,4% dell’occupazione nazionale (per Confartigianato circa sei milioni di persone) sono imprenditori e lavoratori autonomi, a fronte del 10,2% della media dei paesi partecipanti al G8 e ciò non sembra diminuire con le nuove generazioni.

C’è una curiosa conseguenza, di stretta attualità, che questa situazione genera: una recente ricerca dell’ufficio studi di Confartigianato afferma l’esistenza nel solo comparto artigianale di 95 mila occasioni di lavoro per l’anno in corso. Non poche, anche rispetto ai 200-300 mila posti a rischio di cui molti parlano per il prossimo autunno. Tuttavia sembra che per almeno 30 mila di queste occasioni nessuno sappia cosa farsene: parrucchieri, idraulici, falegnami, elettricisti, meccanici che cercano, senza trovarli, collaboratori per le proprie attività. E, contemporaneamente, nuove attività che nascono negli stessi comparti.

Per capirci con un esempio: se i parrucchieri cercano, senza trovare, 3210 dipendenti, nei dodici mesi che vanno da maggio 2008 a giugno 2009 il numero di barbieri ed estetisti aumentava di 1696 unità. È proprio vero: per molti in Italia è meglio essere soli che essere dipendenti.