La legge e il cuore

Dire che il diritto attiene anzitutto alle esigenze più profonde della persona umana può apparire come una affermazione quanto meno eccentrica. Non è così. Lo spiega MARTA CARTABIA

Il diritto attiene all’uomo, attiene alla struttura più profonda della persona umana. Questa affermazione, apparentemente banale e scontata, getterebbe sconcerto se pronunciata in una qualunque delle facoltà giuridiche italiane.

La cultura giuridica dominante è abituata e ci ha abituati a pensare al diritto come a un fatto che attiene anzitutto ed essenzialmente al potere – al potere politico o al potere dei giudici, anzitutto. Che ce ne rendiamo conto o no, siamo un po’ tutti figli della modernità, e identifichiamo la legge con ciò che viene stabilito e deciso dal Parlamento e dai giudici. Tutti subiamo la convinzione che la legge non sia altro che un comando a cui adeguarsi, giusto o meno che sia, un atto di volontà dell’autorità costituita: iustum quia issu.

Uno dei più autorevoli giuristi italiani, il prof. Paolo Grossi – oggi giudice della Corte costituzionale e grande amico del Meeting di Rimini – ha magistralmente messo in rilievo nei suoi studi storici che questa visione del diritto è frutto di una precisa svolta culturale, figlia dell’illuminismo, che tuttora permane sotto le spoglie del positivismo giuridico, che predica l’autosufficienza del diritto positivo e la “purezza del diritto” – che dovrebbe rimanere incontaminato da tutti i fatti della vita sociale (Kelsen). Il clima culturale contemporaneo è dominato dalla convinzione che tutto ciò che non rientra strettamente nel diritto positivo non merita di essere preso seriamente in considerazione, non merita di essere insegnato e studiato, a partire dal diritto naturale.

Come affetti da una grande superficialità, si studiano (o si subiscono) una serie di regole della vita sociale senza mai lasciar sorgere la domanda sul loro significato, sul loro senso profondo, sulla loro origine. In questo clima, dire che il diritto attiene anzitutto alle esigenze più profonde della persona umana può apparire come una affermazione quanto meno eccentrica.

Luigi Giussani, nei suoi scritti fondamentali, offre un invito a non trascurare questo legame profondo tra il fatto giuridico e la struttura antropologica della persona umana, attraverso una delle categorie chiave del suo insegnamento, quella di “esperienza elementare”. Tra quelle esigenze profonde del cuore dell’uomo, con le quali ogni persona è proiettata nell’universale paragone, Giussani ha costantemente annoverato l’esigenza di giustizia, accanto a quelle della verità, della bellezza, dell’amore.

Dire “esperienza elementare” è dire di un contenuto e allo stesso tempo un metodo. Esperienza elementare dice di un contenuto, perché l’esigenza della giustizia (al pari della bellezza, della verità, dell’amore) è una “impronta interiore” che accomuna ogni persona umana, che sia nata da madre eschimese, o giapponese, o della terra del fuoco. Dunque, “esperienza elementare” mette in gioco anzitutto il volto universale dell’esperienza umana – e quindi anche dei suoi risvolti giuridici – un baluardo sotto gli assalti del relativismo, tuttora dominante, nella cultura occidentale.

Eppure in Giussani, l’esigenza di giustizia non rimanda a una universalità di valori astratti, ma piuttosto a una “legge iscritta nel cuore di ogni uomo”. È al fondo di ogni individuo, di ogni singolo soggetto che Giussani ravvisa una legge oggettiva. Un oggettivo dentro il soggetto. In una epoca, come la nostra, dominata da un individualismo esasperato da cui si origina ogni forma di relativismo, Giussani non contrappone una verità oggettiva esterna o estranea all’individuo. È al fondo del cuore di ogni individuo che emerge la legge oggettiva. È la valorizzazione massima della singola persona, e al contempo della possibilità di una conoscenza oggettiva.

Ancora, per Giussani questa legge oggettiva iscritta nel cuore di ogni uomo non è anzitutto un valore o un precetto morale. L’esigenza di giustizia ha la natura anzitutto di un “principio critico” alla luce del quale ciascuno può e tende a valutare e a giudicare ogni fatto umano.

Potremmo dire che l’esigenza di giustizia iscritta nel cuore dell’uomo sia il più potente fattore critico del diritto positivo, che permette alla persona di “bucare” la superficie delle cose – nel nostro caso il dato giuridico – per poterle finalmente conoscere e dare origine a una possibile dinamica di sviluppo.

“Senza la prospettiva di un oltre – dice Giussani – la giustizia è impossibile”. Ogni sistema giuridico positivamente determinato ha bisogno di una apertura su un oltre, uno sbocco su un orizzonte a cui tendere, senza il quale ogni dinamica di sviluppo bloccata. Questo “oltre” si radica nel cuore di ogni persona umana.

Così sommariamente e approssimativamente tratteggiata, l’esigenza di giustizia racchiusa nell’“esperienza elementare” di ognuno presenta affinità e anche alcune peculiarità rispetto alla lunga tradizione del “diritto naturale”, le cui origini risalgono alla classicità e che ha tutt’ora un punto di riferimento insuperato nella teorizzazione offertaci da San Tommaso. In tutte le sue versioni e varianti che si sono succedute nel corso di una tradizione plurisecolare, anche il diritto naturale ha sempre costituito un potente richiamo ad un “oltre” rispetto all’ordinamento positivamente dato. Il diritto naturale è un fattore che richiama sempre a una valutazione critica del diritto positivo, affinché non si perda mai di vista che la legge è per l’uomo, per il suo bene, per il fiorire della persona umana, per il suo sviluppo integrale. Una meta mai esaurita, un dinamismo incessante dell’ordinamento giuridico verso il suo ideale.

Come si diceva in apertura, esperienza elementare dice anche di un metodo, più precisamente dice di un metodo di conoscenza. Come si attinge a quella soglia della “giustizia”, a quella esigenza di giustizia inscritta nel più profondo di ogni uomo e ragione profonda di ogni fenomeno giuridico?

La parola chiave nel pensiero di Giussani è “esperienza”. Bisogna, però, notare che Giussani usa la parola esperienza con un carico di significato che occorre evitare di impoverire. Esperienza non è un semplice raccolta di dati e di fatti, o il meccanico impatto che fatti e dati producono. L’empirismo e il realismo scettico sono riduzioni dell’esperienza: “Esperienza non significa esclusivamente provare, o accumulare molti fatti e sensazioni […] Senza una capacità di valutazione infatti l’uomo non può fare alcuna esperienza, ciò che caratterizza l’esperienza è il capire una cosa, lo scoprirne il senso”.

L’esperienza implica sempre l’incontro tra un oggetto e un soggetto. Come diceva un grande giurista italiano dello scorso secolo – Giuseppe Capograssi – “questa è la legge del soggetto finito, che per conoscerla, occorre che la verità sia vissuta”. La giustizia, per poterla riconoscere, ha bisogno di un soggetto vivo.

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