Tra i tanti anniversari del 2009 a fine anno ricorderemo anche il trentennio dell’invasione sovietica in Afghanistan. In una notte di fine dicembre 1979 enormi Antonov, gli aerei da trasporto truppe usati dall’Armata Rossa, atterravano in lunghe sequenze all’aeroporto di Kabul, che in una mattinata venne presa con poca difficoltà.
Già da qualche giorno la capitale afghana era stata abbandonata dagli occidentali, eccezion fatta per padre Angelo Panigati, che ancora apriva la porta dell’ambasciata italiana dove figurava ufficialmente come “esperto culturale” (e lo era davvero). Non solo era l’unico testimone di quella notte, ma era anche uno dei rarissimi conoscitori del Paese, dei suoi costumi e delle sue tribù.
Raccontava di un Islam molto aperto e pacifico (del resto fino ai primi anni ‘70 Kabul assomigliava alla Beirut prebellica, città che si ispiravano alla dolce vita romana), vissuto come naturale retaggio della tradizione e privo di aggressività come di strategie. Furono i russi ad accendere il fuoco di un altro Islam: buona parte delle milizie guerrigliere trovavano motivazioni e coraggio nella religione. La loro non fu una rivolta nazionale, in nome dell’Afghanistan, ma una guerra religiosa, in nome del Corano. Nel tempo anche le formazioni guerrigliere più “laiche” dovettero cedere il passo.
All’epoca, di quel caos si capiva e si studiava ben poco (a parte padre Angelo). Era tutto fortemente ideologizzato, basti pensare al fatto che i giornalisti occidentali stavano tutti nello stesso albergo di Kabul, tranne i reporter dei giornali comunisti, l’Unità inclusa, che alloggiavano insieme alla stampa dell’est Europa. Nemmeno gli americani ci capivano molto (raccontato poco tempo fa nel film La guerra di Charlie Wilson con Tom Hanks): erano talmente attratti dall’idea di una sconfitta comunista che mai avrebbero immaginato che le armi da loro fornite ai mujahiddin avrebbero poi costituito l’arsenale di Al Qaeda. Soprattutto, nessuno considerava il Pakistan, già allora ben più che un retrovia della guerra.
Eppure non mancavano indizi e segnali. C’era un presidente-dittatore ultraislamico (Zia Ul Haq), c’era una regione di frontiera che cominciava a pullulare di predicatori e militanti, c’era una città senza regole, Peshawar, che fungeva da quartier generale per il conflitto in corso e per quelli che si stavano preparando. E poi c’erano i cristiani.
Se qualcuno avesse voluto starli a sentire, già trent’anni avevano da raccontare l’esperienza della loro infima minoranza (oggi tra 1 e 2% su 170 milioni) nel grande Paese musulmano creato artificialmente con la separazione dall’India (un altro disastro britannico); una esperienza corredata di giudizi, analisi e pensieri: le discriminazioni, le vessazioni, la mancanza di libertà, facevano già parte del loro vissuto.
Bisognava ascoltarli all’epoca, ma come il padre Angelo di Kabul o erano ignorati o non avevano voce in capitolo: troppo marginali e insignificanti. Eppure in Pakistan, in Iraq, in India c’è chi li prende maledettamente sul serio. E per questo stermina le loro famiglie, brucia le loro chiese, ammazza i loro sacerdoti: questo odio non nasce dall’ignoranza e dalla confusione ma dalla conoscenza e dalla chiarezza di chi sono i cristiani e di quale mondo sono in grado di costruire, se lasciati esistere.