Occorre ammettere che la norma di comportamento sociale più praticata e che resiste inalterata da migliaia di anni, è la legge del taglione. Tu fai questo a me, io faccio altrettanto a te. Altro che la cristianissima “non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi”, certamente entrata nel sistema dei valori indicati e predicati, ma ultimamente considerata un auspicio morale in realtà impraticabile, un sogno lontano dalla vita.
Negli anni recenti René Girard con i suoi monumentali studi sul capro espiatorio e la violenza rituale, ha dimostrato la verità attuale, concreta, sconvolgente dell’avvenimento cristiano, portatore di una novità letteralmente “incomparabile” (novità che ha storicamente inciso nella società e nelle relazioni umane) e documentato così la portata rivoluzionaria della Nuova Legge evangelica. Ma nella nostra epoca paganeggiante il Vangelo non fa parte dei libri di testo consigliati – tantomeno ne fanno parte le opere di Girard.
E così la legge del taglione è lo strumento più semplice, immediato, disponibile su larghissima scala. Chiunque lo può adottare, avendone pieno diritto, beninteso. È brandito a più non posso anche nell’attuale bagarre giornalistico-politica. Se quelli hanno frugato nelle camere da letto, ora frugheremo noi. Se quelli hanno distrutto persone, ora le distruggeremo noi. Sostituite il “noi” a “quelli” e il “quelli” al “noi” e avrete l’eterno ciclo di azione e reazione che accompagna la vicenda umana dai tempi dei tempi. Cui oggi si aggiunge il Grande Gioco dello Sputtanamento Incrociato: tu hai usato un’arma ignobile (poniamo: le intercettazioni telefoniche), ora tocca a me usare la stessa arma. Oppure: visto che non hai difeso Tizio non puoi difendere Caio. E d’altronde, e giustamente: perché difendi Caio visto che non hai difeso Tizio? O anche: se dici A in realtà vuoi dire B e io ti reputo colpevole non per quello che hai detto ma per quello che io so che in realtà intendevi dire. E così via. Gratta gratta la storia è sempre la stessa. Qualcuno, non importa chi, ha cominciato, ora bisogna ripagare con la stessa moneta, magari anche leggermente più pesante, in una spirale che finisce sempre al peggio, nell’illusione che la tua morte è la mia vita (ricordate “La guerra dei Roses?”). Nel mondo criminale si chiama faida, in quello civile non c’è il coraggio di chiamarla così, ma non è molto diverso. È la reciprocità al negativo, figlia del “cupio dissolvi” che incalza il nostro tempo.
Ma rispetto ad allora, rispetto ai tempi degli dèi indifferenti e delle guerre primordiali, sappiamo che nella legge del taglione c’è qualcosa che non convince, che non quadra, che provoca disagio. Abbiamo, sia pur vago e opaco, il senso di un’ingiustizia. Ce lo ritroviamo addosso, ereditato da secoli di educazione e testimonianza. Confusamente sappiamo che c’è una verità altra, forse più grande e più felice di quella che crediamo assicurata dalla Vecchia Legge, ma ci manca qualcosa per affermarla realmente.
Già, tu uccidi-io uccido può anche placare per un attimo l’istinto della restituzione del male, ma sappiamo (lo sappiamo: è un contenuto certo della nostra coscienza umana) che otterremo non giustizia ma macerie (ancora un film da citare: “Munich” di Spielberg). Da poco più di duemila anni il comportamento rituale e ancestrale galleggia su un’inquietudine prima ignota: il nemico è annientato, ma… cos’è dunque quella spina che non riusciamo a togliere? Quella frustrazione che oscura il momento dell’appagamento? Che nome ha lo smarrimento che ci coglie nell’istante stesso della vendetta compiuta?