Non riusciva proprio ad addormentarsi, quella notte dell’undici settembre. Tra pochi giorni sarebbe stato il settimo anniversario della sua elezione a Sommo Pontefice. E lui, in quella notte del 1683, lui, l’undicesimo papa che portava il nome di Innocenzo, proprio non era tranquillo. Lo preoccupavano la lentezza con cui avanzavano i suoi tentativi di riforma della curia romana e la sorda ostilità di tanti prelati che pure l’avrebbero dovuta sostenere. Lo preoccupava l’andamento delle missioni nei paesi lontani, su cui si teneva costantemente informato e che trovava tanti ostacoli. Lo preoccupava l’ansia di fare della Chiesa l’autentica madre per tutti i poveri e la sicura maestra della vera fede, mentre spesso i suoi uomini privilegiavano il fasto e i suoi intellettuali seminavano dubbi.
Ma quello che lo angustiava nel profondo dell’animo era la minaccia turca. Dal 14 luglio ingenti truppe del sultano Mehemet IV, al comando dell’implacabile Kara Mustafa, assediavano Vienna. Tutti sapevano che se gli ottomani avessero preso la capitale dell’impero asburgico l’ondata turca non si sarebbe più fermata e sarebbe potuta arrivare – Dio non voglia – a travolgere persino Roma. Il pericolo era enorme: il cristianesimo rischiava di essere cancellato dalla faccia dell’Europa.
Lui, Innocenzo XI, le aveva tentate tutte per convincere i rissosi re e signori cattolici a coalizzarsi per bloccare i turchi. Ma le gelosie, i calcoli politici, la speranza di qualche piccolo guadagno nazionale ostacolavano i suoi sforzi. E poi c’era il sovrano francese, Luigi XIV, che, pur vantando il titolo di «re cristianissimo», se la intendeva col turco e per danneggiare gli Asburgo pareva disposto a darla vinta agli infedeli. Che miopia!
È vero, c’era pure qualche speranza. Il re polacco, Jan Sobieski, si era mosso per dare man forte ai viennesi assediati. E poi quel frate cappuccino, Marco d’Aviano, era una vera potenza: aveva girato mezza Europa (solo a Parigi l’infido Luigi XIV non lo aveva fatto entrare) predicando la necessità di difendersi ai turchi, aveva convertito molte persone e la gente lo considerava un santo; ora era a Vienna e si sapeva che era un abile organizzatore, anche nelle cose militari. Sembrava che la mano del Signore fosse con lui. Ma Innocenzo non riusciva, comunque, a dormire.
Al mattino del 12 settembre finalmente le truppe cattoliche attaccarono gli assedianti. Nonostante la loro superiorità numerica, i turchi furono sonoramente sconfitti. Il pericolo che l’Europa perdesse il suo volto cristiano era scongiurato. Per ringraziare la Madonna, Innocenzo estese a tutta la Chiesa universale la festa, che fino ad allora si celebrava solo in qualche diocesi, del Nome di Maria.
Acqua passata, direte. Non proprio. Qualche verso dei Cori da «La Rocca» di Eliot, nonché il triste spettacolo che abbiamo visto nelle scorse settimane, ci aiutano a capire perché. Dopo l’esilio a Babilonia, il profeta Neemia tornò a Gerusalemme per ricostruirvi il tempio. Ma, dice Eliot, «C’erano fuori nemici per distruggerlo, / e dentro c’erano spie ed opportunisti, / quando lui e i suoi uomini posero mano a riedificare il muro. / Così edificarono come gli uomini devono edificare, / con la spada in una mano e la cazzuola nell’altra». Infatti «Siamo circondati da serpenti e cani: per cui qualcuno deve stare all’opera, e altri tenere le lance». La Chiesa è sempre minacciata dall’esterno e minata all’interno. Nessuno scandalo, ma una chiara consapevolezza: «C’è un lavoro comune / Una Chiesa per tutti / E un impiego per ciascuno / Ognuno al suo lavoro». Ai tempi dei beati Innocenzo XI e Marco d’Aviano, nel 1683. E oggi.