È trascorso esattamente un anno dal crack di Lehman Brothers. Il terremoto nella Grande Mela, il più pesante nella storia bancaria degli Stati Uniti avendo coinvolto la sua quarta istituzione per dimensioni, era stato preceduto da diversi segnali iniziati sin dall’estate del 2007. Quindi ben un anno e mezzo prima.

In tutto questo tempo, fino al giorno precedente quello del crollo dell‘investment bank con 158 anni di vita, furono tanti i tentativi e le iniziative per trovare una via d’uscita positiva. Ma la storia è andata diversamente dai propositi dichiarati dei tanti protagonisti dell’establishment finanziario che coadiuvati dal Tesoro americano sembrava volessero pilotarne il salvataggio.



Pochi giorni dopo lunedì 15 settembre, quando ci fu la richiesta del Chapter 11 (che sostanzialmente vuol dire portare i libri in tribunale), ero a New York e ricordo che tra gli operatori regnavano forti dubbi se fosse stato fatto realmente tutto il possibile per salvare il colosso bancario, e comunque se decretarne la fine fosse stata la scelta più opportuna.



Un dato su tutti: la richiesta di ammissione al Chapter 11 non impedì tre giorni dopo a Richard Fuld, amministratore di Lehman, di vendere alla Barclays (banca che ne aveva, assieme a Bank of America, già valutato l’acquisto) gli asset redditizi del Nord America, al prezzo di 1,5 miliardi di dollari. Quest’anno proprio sulle stesse attività la banca britannica ha annunciato un boom di utili. A distanza di tempo quindi, dopo una forte crisi sistemica, i dubbi restano, soprattutto sul fatto se ci siano state o meno interferenze politiche.

Non voglio aggiungere un’altra tesi alle tante avanzate durante quest’ultimo anno, i commentatori sono stati numerosi e molto più autorevoli del sottoscritto. Invito perciò chi voglia farsi un’idea a leggere le diverse interpretazioni riportate su ogni tipo di media. Vorrei invece limitarmi solo ad alcune considerazioni elementari.



Partiamo da un dato inconfutabile: i piani di intervento dei vari paesi per porre rimedio alla catastrofe finanziaria sono stati senza pari per gli importi messi in campo e per la dimensione geografica interessata. Per coglierne la portata basta menzionare gli Stati Uniti e la Cina: 787 miliardi di dollari i primi e 586 la seconda, corrispondenti rispettivamente al 5,5% e al 13,3% del loro Pil.

Questo dice che comunque sia, a torto o a ragione, c’è un mondo che non può fallire, e che è sottratto alla dura legge della concorrenza invocata invece continuamente per le aziende industriali. Se questo è un dato di fatto occorrerebbe quantomeno introdurre qualche limitazione o rigidità nel modello di business delle banche (ad esempio definendo un rapporto fra l’attività creditizia e quella di trading a seconda che il soggetto bancario sia più o meno di natura commerciale o finanziaria) e nella loro governance (si pensi al modo in cui si misurano i risultati e la formazione della ricchezza reale).

Trovo, d’altro canto, che non sia un bene continuare ad attaccare il mondo bancario come se fosse la causa di ogni male, soprattutto questo non è vero nel nostro paese. Ritengo sarebbe un pessimo precedente obbligare le banche a dare credito in maniera indifferenziata. In Italia sappiamo molto bene quali risultati negativi produce finanziare chi non lo merita. Costringiamo piuttosto le banche a imparare a dare credito alle aziende davvero meritevoli e a rischiare di più con quelle che presentino reali potenzialità di crescita e maggiore capacità di creare occupazione qualificata.

Quindi basta slogan da una parte e dall’altra. Servono poche idee semplici e concrete, che tutti noi conosciamo, ispirate da una svolta culturale che rischia invece di non esserci. E noi italiani preoccupiamoci di volere più bene al nostro paese e soprattutto pensiamo a quale eredità intendiamo lasciare alle generazioni future.