GIORNALI/ C’è voglia di autorevolezza

I giornali tradizionali sembrano in crisi non solo per la concorrenza di free press e internet ma soprattutto per carenza grave di autorevolezza

La cosa è certa: i giornali “tradizionali” – quotidiani e settimanali – sono in crisi. In crisi perché perdono costantemente lettori, assediati dalla concorrenza di Internet e della free press (nella metropolitana di Milano, al mattino, incontro rarissime le persone che hanno in mano un quotidiano diverso da quello che viene distribuito gratuitamente all’entrata della stazione).

 

Ma, più ancora, i giornali tradizionali mi sembrano in crisi per carenza grave di autorevolezza. Il lettore non è stupido e capisce bene, anche se magari in modo non riflesso, che la selezione delle notizie, la scelta delle foto, la malizia dei titoli, il pressapochismo dei contenuti sono tutti indizi che convergono su un punto solo: questi non vogliono davvero informarmi, darmi gli elementi per un giudizio su quanto succede; rispondono al altre logiche, ad altri interessi.

Tanto vale accontentarsi del gossip un po’ banale e approssimativo della free press – che non costa niente – o andare a cercare quello che mi interessa sulla rete. Se poi pensiamo al frequente uso della carta stampata come mazza da picchiare sulla testa dell’avversario del momento o constatiamo che le pagine culturali sono poco più che spot mascherati, le ragioni della disaffezione non possono che aumentare.

Dicevo che manca l’autorevolezza. Ed è curioso constatare che proprio alla distruzione di ogni possibile riferimento autorevole molta carta stampata si è metodicamente dedicata negli ultimi anni, comportandosi da vera “maestra del sospetto”. Ha inneggiato alla necessità di superare ogni certezza, ha presentato come moderno e avanzato solo quello che distruggeva il passato. Invece di fornire strumenti per la verifica di una proposta, ha messo in dubbio la legittimità stessa di qualsiasi proposta.

Seminando il dubbio sistematico, i giornali si sono trovati investiti dalla stessa ondata di scetticismo che hanno contribuito a generare. E a poco serve “alleggerire” sempre di più i contenuti – un fenomeno visibilissimo confrontando una pagina di quotidiano di oggi con una di qualche decennio fa – o rincorrere la secchezza veloce della comunicazione on line. La leggerezza si trasforma subito evanescenza e la brevità dei frammenti che spezzetta la pagina produce solo confusione.

Da dove deriva l’autorevolezza? Non credo che sia questione di avere enormi conoscenze o di ostentare erudizione. Certo, il giornalista dovrebbe conoscere bene quello di cui sta parlando (eppure si leggono articoli così pieni di inesattezze che fanno sospettare del contrario), ma credo che il punto cruciale sia più profondo.

Parecchi anni fa partecipai ad una assemblea con Giovanni Testori, allora scomodissimo editorialista di punta del Corriere della Sera. Gli chiesero chi sentisse vicino tra gli intellettuali italiani e lui, con una certa sorpresa del pubblico, rispose: Pasolini. Perché? gli chiedemmo. «Perché lui, come me, era coinvolto direttamente con quanto scriveva e ha sempre pagato di persona ogni singola parola che pubblicava sul giornale».

Ecco, uomini così sono autorevoli; anche se si può non essere d’accordo con tutto quello che dicono. Sono autorevoli perché mostrano il coinvolgimento sofferto nella ricerca del vero, che in fondo è ciò che ci muove a leggere un giornale.

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