PAPA/ Il grande equivoco

Il Papa ha ricominciato a parlare, durante le udienze, della Storia della Chiesa attraverso il racconto dei suoi santi e maestri più significativi. Desidero offrire ai lettori alcune riflessioni non sul contenuto, ma sul metodo di queste lezioni

Il Papa ha ricominciato a parlare, durante le udienze, della Storia della Chiesa attraverso il racconto dei suoi santi e maestri più significativi. Mercoledì scorso si è soffermato sulla figura di Sant’Oddone, secondo abate di Cluny.

Desidero offrire ai lettori de IlSussidiario.net alcune riflessioni non sul contenuto, ma sul metodo di queste lezioni. La preoccupazione del Papa mi sembra essere quella di lasciar trasparire la dimensione storica della verità. Mostrandoci come essa nasca e si affermi dentro alla storia degli uomini, egli ci fa aderire al suo contenuto in un modo più convincente di qualsiasi argomentazione astratta. Non è un caso che il protagonista di questa udienza sia il monachesimo medievale. Forse l’esempio più clamoroso nella storia dell’uomo di che cosa c’entri la verità con la storia. È talmente vero che la verità è una vita, che genera una storia. Questo è quello che ci hanno insegnato e ci insegnano i monaci: la verità ha dato forma ad una storia.

Occorre, però, fare attenzione: niente è più lontano da ciò della religione intesa come instrumentum regni. La religione civile, nata significativamente all’interno dei movimenti della rivoluzione francese, è l’esatto opposto del monachesimo. Essa infatti nasce come espressione di uno Stato, di un potere politico, che desidera costruire un insieme di valori religiosi comuni su cui fondare poi la convivenza civile. Progetto acuto, certamente scaltro, ma che con la vita di Sant’Oddone di Cluny non ha niente a che fare. E non a caso furono proprio i discendenti della rivoluzione del 1789 a trasformare Cluny in una cava di pietra.

I monaci si sentivano oggetto di un amore che «condannava il peccato, e amava il peccatore», e da questa esperienza nacque nel tempo un nuova civiltà, come un frutto maturo da un albero. Non vivevano insieme per coltivare il loro progetto di cambiare il mondo, ma vivendo dentro la luce portata da Cristo, il mondo intorno a loro fiorì. È proprio questo il tema di fondo anche dell’ultima enciclica, Caritas in veritate. Se non potessimo più vivere l’esperienza che ha generato quella passione per l’uomo, dovremmo rassegnarci a imitare o cercare di riprodurre quell’amore, ma la copia nascerebbe già morta.

Il monachesimo è tanto lontano dalla fede come instrumentum regni, quanto il capitalismo è lontano dalla valorizzazione del lavoro nel monastero, quanto il comunismo dalla vita comune di Cluny, quanto l’assistenzialismo dalla cura al malato nel quale si riconosce Cristo. Oggi i frutti di quella vita, che hanno segnato la nascita e lo sviluppo della civiltà europea, stanno davanti a noi come una provocazione. Ammirandoli, il credente può vedere all’opera lo Spirito ed essere consolato nella fede; guardandoli, chi non crede può rimanere incuriosito e magari compiere il grande passo dal frutto all’albero che li ha generati.

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