Fino ad oggi non sembrano esserci stati ostacoli credibili alla riconferma di Josè Manuel Barroso al comando dell’organo esecutivo dell’Unione europea, la Commissione. Barroso ha infatti avuto fin dai primi negoziati in seno al Consiglio europeo un consenso pressoché unanime da parte dei 27 Stati membri dell’Unione. Durante i suoi 5 anni di presidenza tutti quanti hanno sempre apprezzato la capacità di mediazione e la sua imparzialità sui temi più delicati sui quali era più difficile raggiungere un compromesso tra componenti nazionali e partitiche.
Anche le priorità che il Presidente ha individuato come basi per il rilancio del progetto politico chiamato Europa unita non costituiscono oggetto di particolari divisioni: innanzitutto il recupero dei valori di libertà e solidarietà, per combattere le grandi sfide globali come la crisi economica (con tutte le conseguenze che comporta soprattutto in termini di disoccupazione) e il cambiamento climatico, con la rinnovata ambizione di giocare finalmente un ruolo di leader nel mondo su questi e altri grandi temi. Fin qui tutto bene, ma cosa accadrà quando tra pochissimi giorni il presidente Barroso si presenterà al Parlamento europeo per riceverne la fiducia?
Mi pongo questa domanda dopo aver vissuto da vicino il botta e risposta che c’è stato la scorsa settimana tra il portoghese e Silvio Berlusconi sulla questione dei portavoce, dopo la richiesta di chiarimenti in merito ai respingimenti inoltrata al Governo italiano dalla Commissione europea. Era assolutamente evidente che il problema sollevato da Berlusconi sull’esigenza di far parlare meno i portavoce era volto a non frenare inutilmente l’implementazione di politiche interne agli stati membri che sono palesemente conformi alle direttive comunitarie. Berlusconi ha sollevato un problema di metodo sul quale Barroso ha risposto in maniera stranamente risentita dicendo che «ci sono persone che a volte non comprendono l’originalità della Commissione, che ha non solo il diritto, ma il dovere di dare informazioni a tutti i cittadini».
Ebbene, è chiaro che il presidente Berlusconi ha parlato contro le farraginose e spesso inutili prassi che permeano l’attività della Commissione europea, con il preciso intento di ridarle forza e autorevolezza. Non è la prima volta che Berlusconi muove una critica alla macchina burocratica di Bruxelles, spesso le critiche sono state ben più pesanti di questa sui portavoce. Perché allora Barroso stavolta si è sentito in dovere di replicare alle parole di un primo ministro che per di più fa parte del suo stesso schieramento politico in Europa? Ci può essere soltanto un motivo: il ricatto politico dei socialisti europei.
Mi sorprende che Barroso si stia facendo cucinare a fuoco lento dagli avversari. Lo scenario è infatti già delineato: il giorno del voto per il presidente della Commissione, lo stesso Schulz farà un discorso di fuoco, dove ne dirà di cotte e di crude contro l’Italia e il suo premier. Poi, però, spiegherà che il suo gruppo si astiene sulla Commissione e non vota contro. Ma c’è di più: alcuni degli uomini di Schulz, invece, non si asterranno, ma voteranno contro Barroso, tenendo così il più basso possibile il consenso con cui verrà eletto il presidente della Commissione, che quindi sarà depotenziato. Non dimentichiamo che fra pochi giorni ci sono le elezioni in Germania e Schulz guarda anche in quella direzione: ad esempio, la posizione del suo partito, la Spd tedesca, sarà legata anche al risultato elettorale in Germania e alla politica delle alleanze.
Il presidente Barroso deve rendersi conto che rischia moltissimo se davvero ha l’intenzione di mettersi alle dipendenze di Martin Schulz, perché se fino ad oggi il Ppe è rimasto a guardare sostenendolo ciecamente, da oggi potrebbe non essere più così. Il Ppe, che conserva una maggioranza relativa in Parlamento anche dopo il recente risultato elettorale, ha bisogno di vedere ribadite dal presidente della Commissione le ragioni ideali del proprio progetto a servizio di tutti gli europei.