Si conclude oggi la speciale settimana di preghiera che da decenni raccoglie il mondo cristiano intorno all’obiettivo di ricomporre la propria unità; quell’unità che Cristo stesso ha chiesto – «Che siano una cosa sola» – e indicato come segno di autenticità di fronte a tutti – «Perché il mondo creda» -. 

Una unità che, invece, nella storia ha subito numerose lacerazioni. A partire dalle divisioni successive al concilio di Calcedonia (451) che ha dato origine alle chiese copte dell’Oriente, fino alla Riforma protestante (con tutte le successive scissioni interne), passando per la separazione da Roma di gran parte dei cristiani dell’Europa orientale, gli ortodossi, sancita nel 1054. E questo elenco è ampiamente parziale e non riguarda che le lacerazioni più gravi.

Il «movimento ecumenico» – la cui data di nascita gli storici fissano esattamente un secolo fa, nel 1910 – mira a ritrovare l’unità fra i cristiani. Uno dei suoi capisaldi è la consapevolezza che ogni testimonianza subisce un freno, è minacciata nella sua credibilità proprio dalla divisione dei credenti. L’istanza ecumenica è fiorita dopo la seconda guerra mondiale ed ha trovato, per quanto riguarda la Chiesa cattolica, un forte impulso nel Concilio Vaticano II. Dopo il quale ci sono stati anni di autentico entusiasmo, quasi che la meta fosse a portata di mano. 

Nonostante i notevoli passi compiuti, l’unità appare tuttavia ancora lontana. D’altra parte l’ideale ecumenico ha rischiato di confondersi con un generico irenismo e ha in parte perso di vista il suo obiettivo missionario, riducendosi nel circolo interno di infinite discussioni teologiche, canoniche, organizzative.

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 Il Novecento ha offerto però anche un esempio eccezionale di ecumenismo: quello dei lager. Nel secolo scorso la persecuzione contro la fede cristiana ha toccato livelli che non erano stati raggiunti neppure nell’impero romano e la Russia sovietica ne è un esempio tragicamente imponente.

 

Travolti dalla macchina della persecuzione, cristiani di diverse confessioni si sono trovati accanto e, proprio lì nei campi di lavoro forzato o nelle galere, hanno riscoperto una unità che nessuna divisione dogmatica o disciplinare poteva intaccare. Per questo sono diventati mirabili testimoni della fede. 

 

Dallo splendido libro Solovki. Le isole del martirio traggo un esempio semplice e commovente. È il primo maggio 1924 e nel freddissimo arcipelago a nord della Russia, trasformato in lager dai sovietici, si vuole celebrare la festa dei lavoratori. C’è ancora molta neve (siamo a nord del Circolo polare artico) e i caporioni del lager decidono che a spazzare il piazzale dove si sarebbe svolta la cerimonia e a cospargerlo di sabbia sarebbero stati i vescovi reclusi. 

 

Ol’ga Jafa è prigioniera nel reparto femminile, le cui finestre danno sul piazzale. Ricorda così la scena: «Guardavamo come quei quattordici uomini sfiniti, con la veste talare, si sforzavano di trascinare fin sulla cima del colle un grosso carro carico di sabbia; alcuni lo trascinavano per le stanghe, altri lo spingevano da dietro, i rimanenti lo sostenevano ai lati per tenerlo in carreggiata.

 

Unendosi nello sforzo, lavoravano insieme un vescovo cattolico ancor giovane, evidentemente molto miope, con occhiali rotondi di corno, e un vecchietto emaciato e scarno con la barba, un vescovo ortodosso, antico di giorni ma forte di spirito che spingeva energicamente il carico.

Guardavo e piangevo. Ciò che vedevo era la rinascita della fede pura e autentica dei primi cristiani, l’unione delle Chiese nella persona di vescovi cattolici ed ortodossi che partecipavano unanimi all’impresa, un’unione nell’amore e nell’umiltà, al di là di concili e dispute dogmatiche».